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Il Medioevo dei sequestri

  • Gianni Spartà
  • 16/05/2022
  • 0

Cristina Mazzotti

Quella mattina il maresciallo della Scientifica ha un diavolo per capello.  Non sorride, rifiuta il caffè di cortesia, entra ed esce dalla stanza dei suoi capi al primo piano della questura di Varese. Vuole dire, ma non è il momento. Sul segreto prevale la confidenza alla fine della giornata: “Abbiamo fotografato il telefonista della banda che ha rapito Cristina Mazzotti in piazza Monte Grappa. Hai presente la cabina sotto la Torre? Da lì. Ciao”.  Non c’è internet e nemmeno il digitale. Frasi come “ti mando la postazione” appartengono alla fantascienza. Siamo nel medioevo dei sequestri, il reato più odioso al quale si è convertita, nella prima metà degli anni ’70, la mala romantica di una provincia di confine. Che tanto tranquilla e quasi svizzera non è affatto, smentendo lo stereotipo: nelle sue viscere bolle di tutto, terrorismo rosso, stragismo nero. Niente sangue sul territorio, se si esclude l’omicidio di un metronotte: tante auto bruciate a dirigenti industriali, volantinaggi, l’incendio di una fabbrica, piani eversivi scoperti in tempo come quello di due bombaroli neri fermati a Casciago nel 1974. Passa una settimana prima che la foto scattata con un teleobiettivo dall’ultimo piano di un palazzo, forse quello dell’Inps, finisca sui giornali.  E’ sfocata: l’uomo ha un giubbino ed è stempiato. Ma quel giorno segna un crinale nelle storia giudiziaria italiana, ramo lombardo. Cristina Mazzotti è la prima quota rosa nel libro nero dei sequestri, è la prima rapita a non tornare mai più a casa  e c’è dell’altro che si scopre a 47 anni di distanza dalla sua morte orrenda (gettata in una discarica di Galliate accanto a un carrozzino arrugginito), senza che nessuno ormai se ne stupisca: dietro al sequestro della ragazzina, 18 anni, studentessa comasca, un casco di capelli lunghi attorno a una faccina da bambola, c’è stata la ‘ndrangheta. L’hanno portata via il primo luglio del 1975  malavitosi locali di mezza tacca, ladri, rapinatori, ex contrabbandieri, ma gli ordini, anche quello di ucciderla, sono arrivati dalla Locride, da boss calabresi infiltrati al Nord . Lo dice e vuole dimostrarlo in un nuovo processo la Procura di Milano (tre arresti finora) e siccome indaga un pubblico ministero galantuomo come Alberto Nobili, lunga esperienza nell’antimafia, tanta passione civile, ci sta questo tuffo all’indietro di mezzo secolo. Quasi l’interesse oggi fosse più  storico che giudiziario. In ogni caso l’inchiesta ha a portata di mano la verità su una stagione criminale che la lasciato segni pesanti Varese. Cristina Mazzotti come Emanuele Riboli, studente delle serali, figlio del padrone di una carrozzeria a Buguggiate, e Tulio De Micheli, industriale di Comerio. Rapiti e spariti nel nulla tutti e due, puzzo di devianze mafiose in entrambi i casi. E allora per i sequestri di persona si immaginavano scenari da “Banditi a Milano”, il film di Lizzani, poliziotti e carabinieri all’oscuro dei legami Lombardia-Calabria arrivavano a dire per Riboli: si risolverà tutto, è una ragazzata. Che non lo era lo ha rivelato un pentito, Antonio Zagari, molti anni dopo tradendo suo padre Giacomo, un santista, mandandogli a monte l’ultimo rapimento a Germignaga . Ma era tardi: Emanuele era stato ucciso , forse dato in pasto ai maiali, affinché  suo padre si portasse nella tomba il senso di colpa per non aver pagato il riscatto. Lo pagò eccome, ma la storia è rimasta avvolta nel mistero. Non pagarono i carcerieri per il loro atroce misfatto. La corte d’assise dovette prendere atto della prescrizione dei reati nel 1999 e un affranto Alberto Nobili prima di entrare in aula telefonò alla famiglia Riboli per dire: “Mi scuso dei tanti errori dello Stato in questa vicenda. Purtroppo dovrò chiedere l’archiviazione del processo e mandare assolti i responsabili”   

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