La strage evitata a Varese
- Gianni Spartà
- 13/12/2019
- 0
Commemorando la strage di piazza Fontana, quel 12 dicembre del 1969 in cui l’Italia perse la sua innocenza, giova ricordare a chi non c’era come in quegli anni orrendi Varese non fu risparmiata affatto dalle raffiche del vento eversivo. Non ci furono morti, fortunatamente, ma resta stampata con inchiostro indelebile nel pensiero dei cronisti dell’epoca la frase pronunciata dal questore Luigi Vittoria: “Li abbiamo presi in tempo. Erano qui per tramare, per fare qualcosa di terribile”. Agenti dell’Antiterrorismo avevano appena arrestato due giovani, “il meglio della manovalanza nera”, “due eroi della platea neofascista di San Babila”. Erano da giorni in un casolare di Casciago preso in affitto, custodivano, tra armi e libri di istruzione militare, tre chili di tritolo avvolti in sacchi della nettezza urbana. I loro nomi è inutile riscriverli a distanza di tanti anni: siamo per il diritto all’oblio soprattutto per chi ha scontato una pena. Ma le due ipotesi legate alla loro cattura ancora oggi mettono i brividi. La prima: volevano far saltare lo stadio “Franco Ossola” durante la partita Varese-Roma domenica 3 novembre del 1974 e sarebbe stata una carneficina. Centinaia di corpi straziati sotto le tribune. La seconda: dovevano distruggere la diga di Creva, una delle più grosse della Lombardia, liberando un milione di metri cubi d’acqua che avrebbero cancellato gli abitati della zona al confine con la Svizzera. Dove i bombaroli si sarebbero poi rifugiati a fatto compiuto.
L’attentato allo stadio restò una supposizione, anche se fortemente asseverata dalle fonti confidenziali dei Servizi segreti. Ma la scoperta di cinque barattoli di miscela esplosiva nella pineta di Creva convinse chi indagava che nelle vicinanze della diga tutto era pronto per il disastro.
I due vennero processati e condannati, ma nemmeno quella volta saltò fuori tutta la trama della storia. La regola, non l’eccezione, in un Paese nemico della verità. Piazza della Loggia a Brescia, Treno Italicus, stazione di Bologna, piazza Fontana a Milano contemplano morti orrende, ma anche inquietanti intrallazzi di palazzo. Chi stava dietro le quinte di Casciago, chi pilotava dall’alto l’operazione sventata dagli arresti, di quale progetto erano comparse non casuali due ragazzi poco più che ventenni ma con una carriera di pestaggi nei licei e nelle università, di esercitazioni paramilitari nel Centro Italia?
Il momento storico era quello della strategia della tensione. Bombe fatte esplodere per destabilizzare, per provocare l’insurrezione armata contro lo Stato. Che in qualche caso era infiltrato da complici.
Il processo fu scandito dai plateali e convinti saluti romani degli imputati e dai loro battibecchi col pubblico ministero Francesco Pintus che, a proposito di complicità, allora sospettate, oggi accertate in molti casi, lamentò d’essersi sentito solo, forse anche tradito: “Io ho agito in nome della legge, altri mi hanno ostacolato e non hanno collaborato in nome di interessi personali”.Sull’onda emotiva dei 50 anni da piazza Fontana, appare esiziale una storia di provincia che s’è persa nel mare grande delle inchieste su stragi compiute e fallite. Ma è la storia di “qualcosa di terribile” che avrebbe accomunato Varese ad altre città devastate dalla furia demolitrice di chi voleva la paura, il sangue, il rovesciamento delle istituzioni. Il disegno era quello: lo confermarono in aula gli esperti dell’Antiterrorismo nazionale precipitatisi dove si era aperto un altro fronte ancora più minaccioso, perché decentrato rispetto alle metropoli e dunque nascondiglio meno facile da individuare. L’opinione pubblica di Varese, è vero, non valutò appieno il rischio corso e siamo certi che rivisitare oggi i fatti di Casciago può apparire memorialismo fine a se stesso. Forse prevalse la paura di schierarsi, ma è bene rammentare che in quel casolare, nel pieno dello stragismo, non fu sventato un furto di polli. Non mancarono illazioni: Varese città fascista. La verità è che in quegli stessi anni Varese si rivelava città brigatista come documentò la presenza di tanti “ragazzi di piombo” al processo Rosso-Tobagi, la resa dei conti con l’estremismo di sinistra. Vale la pena evocare il coraggio di due commesse le cui testimonianze permisero ai giudici di appurare che i sacchi nei quali era stato trovato l’esplosivo di Creva erano stati acquistati in un negozio di Casciago. La requisitoria di Pintus consegnò alla storia il loro civismo: “Sapete perché queste giovani donne non hanno avuto paura? Perché non hanno “robba”, perché possono avere una speranza che non si alimenta con i soldi, ma col la pulizia etica”. Un monito per sempre.