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L’economia bianca in bancarotta

  • Gianni Spartà
  • 04/12/2022
  • 0

Ospedali profondo rosso

Quante volte paghiamo la tutela della nostra salute? Almeno tre volte: agli sportelli del Cup  dove non si salda il conto delle cure ricevute ma solo una piccola parte chiamata ticket; alla compilazione della denuncia dei redditi sotto forma di contributi, evasori esclusi benché utilizzatori portoghesi; a fine anno quando lo Stato ripiana i bilanci da bancarotta degli ospedali pubblici definiti curiosamente aziende. Una scrupolosa ricerca di Nicola Bedin, non un accademico ma un imprenditore a capo di Lifenet Healthcare,  segnala casi significativi: il Niguarda, struttura d’eccellenza a Milano, registra ricavi per 427 milioni, costi per 680, deficit a carico della comunità per 253.  Il Besta, altro punto di riferimento milanese per la clinica specialistica, incassa 103 milioni, ne spende 130, 27 restano su gobbo nazionale.  Il Galliera di Genova accusa un disavanzo di 67 milioni, il Sant’Orsola di Bologna di 231. Il totale del profondo rosso  fa 578 milioni. Siamo al Nord, non nel vituperato Meridione d’Italia. Qualsiasi amministratore delegato privato porterebbe i libri in tribunale di fronte a simili numeri. Il sistema sanitario nazionale, vanto del nostro Paese al punto che Obama tentò di adottarlo negli Stati Uniti, assorbe i colpi con modalità che gli studiosi definiscono “incompatibili”.  Pensiero di Schopenhauer: la salute è tutto, ma senza la salute tutto e niente. Come dire: sempre ben spesi i soldi per curare un malato di tumore, operare un cardiopatico, riabilitare un fratturato. Ma la crisi dell’economia bianca, dal colore dei camici di infermieri e medici e anche della capigliatura dei pazienti, non è cosa che possa essere sopportata a lungo. Pena una resa dei conti drammatica. I tedeschi sanno che l’11 per cento del loro prodotto interno lordo serve a far funzionare gli ospedali, i francesi il 10,3, gli italiani si devono accontentare di un 7,2 oggi, che diventerà 6,1 nel 2025. Calo da 134 miliardi a 129, con un milione e mezzo di posti in meno nel secondo settore (servizi alla persona) a causa del blocco del turnover. Con più famiglie monoreddito cui è preclusa l’alternativa della clinica privata. Con entrate insufficienti ed elevati carichi di cure. Con più sussidi assistenziali, meno figli, più vecchi. C’è un inestricabile circolo vizioso in questo racconto. Dio ci conservi il sistema sanitario nazionale, ma lo stesso Dio illumini chi lo deve guardare dentro, come si fa con una macchina in panne aprendo il vano motore.  E’ tutta colpa dell’aziendalizzazione, richiamando in testamento di un anziano medico che si augurava di morire in un ospedale, non in una azienda? Se vogliamo fare filosofia sì. No, se la smettiamo di guardare un mondo cambiato dallo specchietto retrovisore. I manager servono e vengono selezionati per la capacità non per il carattere. Poi ci sono casi in cui il merito, usiamo il verbo caro a Meloni, non è sempre una priorità e in ogni caso dovrebbe  essere assoggettato a tagliandi periodici ed eventualmente a rimozioni. Ma eseguiti da chi? Dalla politica? Qui casca l’asino. E l’asino non casca, ma si accascia, quando si scopre, a proposito dei deficit delle aziende sanitarie ripianati da Pantalone, che siamo l’unico Paese in Europa a far pagare l’Iva agli ospedali e agli ambulatori. Aliquota del 22 per cento sui materiali, del 10% sui farmaci, del 4% sulle protesi. Per Francia e Spagna l’imposta è detraibile, qui in Italia no. D’altra parte durante l’emergenza Covid lo Stato tassava anche la beneficenza, cioè gli acquisti di macchine donate dalle Onlus agli ospedali in emergenza. Lo vergogna fece rumore, un decreto urgente del governo la cancellò quando i bui erano scappati. Ecco da che cosa si dovrebbe cominciare. Dall’armonizzare le procedure anche a proposito del personale: 23,4% di medici tra i 65 e 75 anni in Italia, 7% in Germania, 5,7% in Spagna. Poi occorre la riforma urgente del sistema. Prima che sia troppo tardi.

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