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Gli azzeccagarbugli

  • Gianni Spartà
  • 11/05/2024
  • 0

Burocrati e crisi di nervi

 Una dottoressa voleva fare il medico, non maneggiare scartoffie seppur digitali. Un bel giorno ha comunicato ai suoi pazienti: cercatevi un’altra o un altro, io chiudo lo studio. Di tritare fritta, anziché visitarvi, mi sono stancata. Tratto da una storia vera: le torture della burocrazia non risparmiano nemmeno i luoghi dove vai a salvarti la pelle, ospedali, farmacie, presidi della medicina di base. Ma scartavetrare la pazienza al cittadino con pratiche, code, firme e garbugli è usanza trasversale e multitasking. Ciascuna nazione la esercita secondo le proprie leggi. Le nostre sono troppe, contorte: un insulto al decoro e al debito pubblico, oltre che buon funzionamento dello Stato. L’inventore della burocrazia fu un francese del ‘700. Si chiamava Gournay, propugnava il liberismo economico e il “potere degli uffici” secondo lui avrebbe spazzato via regole e regolatori. Un rivoluzionario fallito: la ghigliottina s’è subito inceppata, anziché tagliare teste, ne ha moltiplicate all’inverosimile nei secoli e con i soldi del popolo. Il cittadino entra in un ufficio pubblico e ne esce quasi sempre con un problema, quasi mai con la soluzione. Da una ventina d’anni in qua tutti i sedicenti semplificatori - uno dei quali si fece riprendere dalle telecamere mentre dava fuoco a una montagna di carta filigranata- hanno acceso speranze. Senonché, finito il falò, tutto è rimasto uguale a prima. Come si senta il burosauro rincasando la sera col pensiero di avere addosso centinaia di maledizioni è intuibile: scattano l’autodifesa in pubblico e, solo nei casi di persone sensibili, la frustrazione in privato. La colpa, in ogni caso, è di un organismo che si riproduce per partenogenesi, in natura lo sviluppo di un uovo non fecondato, nella metafora amministrativa la smodata riproduzione di decreti e de-cretini. Ciascun italiano ha una storia di cattiva pubblica amministrazione da raccontare. Quanto spreco di tempo e di capitale umano. Ora l’Europa ci passa una super paghetta, chiamiamola così, ma per poterla spendere bisogna subito eliminare l’immensa selva oscura di timbri, bolli, veti. E per disboscare non ci vuole l’accetta o il macete, ma il napalm. Che è una brutta immagine, ma rende l’idea di come la Repubblica abbia continuato ad avvitarsi su sé stessa dopo che negli anni ’70 un famoso banchiere, Guido Carli, denunciava per la prima volta i lacci e lacciuoli di cui eravamo tutti prigionieri. Il punto di partenza potrebbe essere vietare l’elenco dei documenti da procurare nei documenti prestampati. “Ma scusi”, obietta il cireneo preparandosi a portare la croce, “queste carte non le avete già voi nei vostri tabulati?” (copie conformi di contratti, dati catastali, identità personali e fiscali, forse anche il numero di scarpe). “Sì, caro signore. Ma ce li deve esibire lei”. “E perché?” “Perché noi siamo un ente territoriale e da qui non possiamo accedere”. Accedere: ecco lo scoglio contro il quale s’infrange regolarmente la speranza non di fare presto, ma di fare prima. In poche parole: nel corpaccione dello Stato la mano destra non può sapere che cosa fa la sinistra. Basterebbe un “clic”, monosillabo magico, se i sistemi informatici dialogassero, come fossero maglie della stessa rete. Non lo “possono” fare, per legge. Follia, ma anche accondiscendenza all’ottusità. Posto fisso, nessun rischio dalla culla alla tomba, a casa tutti bene: a quale dirigente conviene alzare la testa, addirittura usarla per amore di patria? La transizione ecologica è un atto dovuto, speriamo non tardivo. Ed è un bel cambio di passo la transizione digitale. Ma ci vorrebbe una terza transizione, quelle del buon senso nell’esercitare il “potere degli uffici”.

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