MinchiAntò
- Gianni Spartà
- 20/12/2020
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Il gigante buono e burbero
Nascere a Messina con lo Stretto davanti agli occhi da mane a sera significava, avendo attitudine per lo sport, gettarsi in mare appena possibile e innamorarsi del nuoto libero, fino a cimentarsi nella madre di tutte le imprese: raggiungere a bracciate l’altra sponda tra Bagnara e Villa San Giovanni, la mitica Scilla dirimpettaia di Cariddi. Oppure adocchiare una piscina, magari d’acqua salata, per diventare un buon giocatore di pallanuoto. Oppure elevarsi sulla sabbia e schiacciare un pallone al di là di una rete di beach volley. Ad Antonio De Francesco, classe 1942, il gigante B&B di Velate (Buono e Burbero) è capitato l’imprevedibile: lui, siciliano di razza, amava la pallacanestro, non si sa bene per quale trama del destino. E questo destino ha voluto che all’età di 24 anni si stabilisse per lavoro e per amore a Varese, dove c’era già una santuario del basket oggetto di devozione nazionale. Senza volerlo, egli seguiva le orme del grande Vittorio Tracuzzi, nato a Pace del Mela, sobborgo montano di Messina, giocatore e poi allenatore della Ignis di Giovanni Borghi. Quel cumenda campione di milanesità che nelle fabbriche e nello sport finiva sempre per dover ammettere di non aver patito tradimenti da uno del Sud. Forse qualche delusione la provò imbattendosi nella Cassa del Mezzogiorno mentre apriva lo stabilimento di Napoli. Ma imprecava in dialetto contro Roma ladrona, mai contro le due Sicilie. A Varese Big Antonio, spalle e mani da gladiatore, cento chili di muscoli spalmati su quasi due metri di cristiano, aveva trovato la manna del basket. Si diede a giocarlo, a seguirlo, a insegnarlo, ad allenare squadre. E alla sua scomparsa, avvenuta due settimane fa, due generazioni di canestranti hanno tirato fuori dai cassetti foto di ragazzi in braghe e canottiera che, trascinati da De Francesco, riproducevano sui campi minori l’esempio delle star di casa: Ossola, Rusconi, Meneghin Flaborea, Zanatta, Morse, Raga, l’invincibile armata gialloblù. Ne è uscito un amarcord incentrato sul personaggio di cui sorprendeva la lingua: un misto di sicilianità e inflessioni padane spesso da decriptare tranne quando la parola diventava l’esplosiva la parolaccia di un capobranco che, come Tracuzzi, era stato promosso coach. I suoi lo chiamavano Dudù o MinchiAntò. Lui li massacrava per un assist mancato, un punto bruciato; loro ingoiavano la sfuriata che puntualmente si scioglieva in sorriso, ma solo alla fine si vinceva. Altrimenti altri improperi. Atletico Varese, squadra di futuri medici, commercialisti, ingegneri. C’era qualcuno più grande che lavorava nella bottega del papà. Velate Basket, compagine stracittadina cresciuta nel cuore del borgo tra la parrocchiale e la casa di Renato Guttuso. Sono due capitoli della buona battaglia combattuta da Antonio, il cui capolavoro è stata per una ventina d’anni l’organizzazione della Stravelate. Niente palloni, podismo: partenza e arrivo all’oratorio di cui De Francesco era la storica e fedele sentinella. Già, Velate. Qui il personaggio ha trovato moglie, Luciana, medico, qui sono nate le sue figlie Greta e Jessica e qui non c’è pietra attorno alla chiesa, da lui non molto frequentata, che non racconti per fatti e aneddoti la generosità genetica dell’uomo, la laboriosità acquisita del volontario. Ma anche la cosa più importante: la sana tempra dell’educatore.