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Lidia: l’assassino ora confesserà

  • Gianni Spartà
  • 30/01/2021
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Le quattro parti offese

In questa triste storia di ventinove coltellate in cerca d’autore da 34 anni, tra maldicenze umane e fallimenti giudiziari, le parti offese sono quattro: fa famiglia di Lidia Macchi, il buon senso di un popolo, l’immagine della giustizia e lo stato di diritto. A una madre, l’unica persona che si è distinta per serietà in tutto questo tempo  - mai eccessi, mai odio, tanta fede - hanno descritto tre volte il profilo dell’assassino di sua figlia, 21 anni, una ragazza speciale: il primo seguiva i lineamenti di un prete biondo e con gli occhi azzurri, il secondo disegnava l’identikit di un killer seriale, il terzo svelava la contraddittoria personalità di un compagno di scuola di Lidia. La trentesima coltellata. Morale: niente e così sia. Alla gente non solo di Varese è stato fatto credere che l’arma del delitto, una lama, potesse trovarsi sotto il pratone di un parco pubblico rivoltato come un guanto dopo trent’anni con decine di soldati e genieri all’opera per due settimane. Morale: costi pubblici pazzeschi (chi li paga?), ritrovamenti nella terra di nove coltelli domestici, residuo di archeologici picnic. Si noti che l’eventuale assassino, abitando in un paese sul lago, se la sarebbe potuta cavare con un lancio. A chi ha seguito il processo di primo grado, finito con ergastolo spazzato via in appello come si fa con una carta inutile, più volte è parso che sul banco degli imputati non si fosse Stefano Binda, entrato in carcere nel gennaio del 2016 grasso, malvestito, segnato dalla droga, riapparso in aula come un figurino di Armani, alto e sottile, ma il pubblico ministero Agostino Abate accusato dai superiori colleghi milanesi di indolenza investigativa. E con lui un gip e un cancelliere che sciaguratamente, facendo pulizia nei loro uffici, s’erano sbarazzati di vetrini sui quali potevano esserci le impronte genetiche dell’assassino: liquido seminale. Morale: senza parole. A Stefano Binda, infine, risulta difficile sentirsi  innocente perché il tempo trascorso dall’arresto alla seconda sentenza (ieri l’altro confermata in Cassazione), lui l’ha passato in carcere. Tre anni e mezzo, Delle due l’una: abbaglio o supponenza. Nel senso di aver supposto che, anche in assenza di una prova regina dopo 30 anni, si potesse dare il carcere a vita a uno che aveva postato una lettera per la famiglia Macchi nella quale si delirava di “velo del tempio strappato” e di “stelle in una notte gelida”. Si noti bene: il dna rinvenuto sulla striscia gommata della busta non era del presunto mittente. E nemmeno erano di Stefano i quattro capelli e peli scovati sulla salma esumata di Lidia: altra circostanza atroce per tutti, figuriamoci per la sua famiglia tre volte illusa. L’impossibile verità, dunque, è stata sfidata e questo è un dovere fondante per una giustizia che non può arrendersi davanti mai di fronte a un femminicidio di questa sorta. Ma è stata sfidata in tempi strani  ritardando troppo, caso mai, l’avocazione di un’inchiesta morta da ventisei anni. Era stato indagato un prete nel 1987, c’erano stati interrogatori notturni di altri sacerdoti che avevano inorridito la Curia milanese, la ragazza era una fulgida promessa di Comunione e Liberazione, come lo era incredibilmente Stefano Binda a detta di don Fabio Baroncini, il “Giussani” di Varese appena scomparso. Perché la svolta a freddo nel 2016 quando oltre tutto il sospettato era Giuseppe Piccolomo, il killer delle mani mozzate e non ancora Stefano Binda? Vicenda umana e processuale da archiviare con tanta amarezza: questo l’unico fatto certo. Ma non si possono tacere i dubbi cominciati la notte dell’arresto di Binda avvenuto a favore esclusivo delle telecamere di un programma Mediaset. Ai reporter capita di essere fortunati e più bravi. E tuttavia l’orchestrazione anche mediatica di quello che doveva essere sì un processone di rilevanza nazionale, ma anche l’inizio di una resa dei conti tra toghe, investigatori compresi,  è impressione difficile da rimuovere. Nessuno saprai mai chi ha ucciso Lidia Macchi? Chi scrive ci ha messo la firma e anche la faccia tante volte su questo caso, allora insiste: prima o poi l’assassino cederà ai morsi della sua coscienza. Ma si rechi in una caserma dei carabinieri, non solo in un confessionale.      

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