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Il secolo lungo di Beppi

  • Gianni Spartà
  • 11/02/2021
  • 0

Bortoluzzi 1918

“Bel traguardo, non penso di poterlo raggiungere. Auguri a tutti voi”. Quando questo giornale compì 130 anni, il 2 dicembre del 2018, mi recai a casa di Beppi per raccogliere testimonianze d’epoca. Lui ne aveva appena compiuti cento e i trenta in più della Prealpina in qualche modo lo stimolavano. Era un figurino tra poltrone antiche e quadri d’autore. Udito fresco, lucidità impressionante, eloquio fluente come quando declamava rogiti notarili davanti ai contraenti. A Varese, dove era approdato dopo varie tappe a Genova, città natale, Venezia, Merano, Monaco e Pavia, luogo dio studi, non perdonava tre cose: essere diventata svizzera rinunciando all’impronta milanese; non aver ricostruito un teatro; restare avvinta come l’edera alla caserma Garibaldi che lui avrebbe raso al suolo pur avendo fatto il soldato negli alpini e conosciuto la prigionia sotto i tedeschi. Cominciammo proprio dal dopoguerra, più che intimiditi, attenti di fronte a un personaggio franco nel dire, raffinato nel pensare, affilato nella polemica. Quanti ricordi. Beppi, allora, si riconosceva in un gruppo di amici tenuto insieme dalla voglia di vivere: suo cognato Dante Isella, insigne filologo, Piero Chiara, Giovanni Pirelli, Silvio d’Arco Avalle, Luigi Ambrosoli. Come rifugio dell’anima scelsero un negozio sistemato dall’architetto Bruno Ravasi dove oggi si erge l’ex Banca d’Italia e ne fecero una libreria: Il Portico. Divenne cantiere di progetti culturali realizzati: due mostre di scultura che richiamarono ai Giardini artisti di valore, un concerto dei Solisti Veneti, uno di Chet Baker. I soldi li metteva l’Azienda di soggiorno presieduta la Luigi Zanzi senior, anch’egli celebre notaio. La semina, sulla distanza, produsse poco e nulla. E qui il Grande Vecchio ne elencò le cause: scarsa socialità, le famiglie potenti ciascuna per sé, profilo provinciale, vero peccato in un territorio che offriva e offre molto, ma che aveva perso di vista l’illuminismo milanese per convertirsi al calvinismo elvetico. I banchi del consiglio comunale furono lo sfogatoio di queste amarezze. Beppi vi sedeva all’opposizione insieme con altri illustri borghesi della città liberale ed esponenti socialisti e comunisti. Dominava la Dc a Varese. Nel frattempo, anni ’60 e ’70, la città di Maria Teresa veniva sfigurata. Mi disse Bortoluzzi, testimone privilegiato come notaio: “I varesini, anche quelli su, volevano case, non belle case. Chiamavano i geometri, non gli architetti. Credo che il gran milanese Luigi Caccia Dominioni, conosciuto da queste parti, a Varese abbia lavorato poco”. A cent’anni suonati, Beppi non dimenticava gli echi della sua battaglia contro il murale di Guttuso alla Terza Cappella, quella “Fuga in Egitto” dai colori squillanti tra tenui tinte  seicentesche. Pur essendo stato amico del pittore siciliano naturalizzato velatese e avendo acquistato sui quadri, egli insisteva sull’errore d’aver distrutto l’affresco originario del Nuvolone sostituendolo con quella tempesta di rossi e gialli mediterranei. Ma difendeva il committente monsignor Pasquale Macchi: l’ex segretario di Paolo VI voleva che Guttuso lasciasse un segno della sua presenza a Varese e gli propose una “Fuga” nella quale San Giuseppe ha la faccia di un feddayn.  Finale sulla sua professione: “Eravamo preti laici, i clienti ci confessavano i loro peccati economici e non cambiavano mai parrocchia”   

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