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Il bisturi e la Colt

  • Gianni Spartà
  • 22/02/2021
  • 0

Cherubino John Wayne

Eh no, caro Matteo Inzaghi, Paolo Cherubino non lo “Lo chiamavamo John Wayne” per citare il titolo della tua bella biografia “estorta”, aggiunge il biografato. Per come l’ho conosciuto io, il prof “lo chiamavano Trinità” egli incarnando prodigiosamente il padre, il figlio e rispettosamente lo spirito santo. Il padre ha sparso la sua semenza di chirurgo ortopedico in mezzo mondo. Una volta, girando con lui per Tel Aviv durante una gita universitaria guidata da don Luca Violoni, ci indicò due ospedali nei quali aveva operato. Il figlio si è rivelato degno del genitore Mario, anch’egli barone, titolo autorizzato dall’erede non trovandovi nulla di che vergognarsi. Anzi. E lo spirito santo c’entra, infine, per almeno tre motivi:  salvò Paolo nella primavera del 1997 quando venne rapito da un guerrigliero pazzo durante una missione umanitaria in Albania; lo sostenne allorché egli si mise di traverso al cospetto del Celeste Formigoni, per un ventennio signore e padrone della sanità lombarda; gli tolse le castagne dal fuoco nel corso di numerose beghe accademiche, l’ultima delle quali  culminata nel divorzio dal rettore varesino Renzo Dionigi e nell’abbandono della poltrona di preside della facoltà di Medicina e Chirurgia occupata per undici anni. Dunque Trinità. Anche se nella mole Cherubino somiglia più a Bud Spencer che a Terence Hill. Lo scherzo finisce qui. Cominciano le memorie che Inzaghi sceneggia, da intenditore di cinema, è che ci consegnano il ritratto di un protagonista dell’avventura universitaria a Varese. Siamo a 33 anni dalla rivoluzione rappresentata dallo sdoganamento di un ateneo autonomo in un territorio che aveva altre vocazioni non necessariamente legate alle lauree: industria, commercio, turismo. La data esatta? Quattordici luglio, giorno della presa della Bastiglia. Tu guarda la combinazione.  E se ne contano in aggiunta altri 25, di anni, considerando il travagliatissimo parto che ha preceduto la nascita della creatura. Risale al gennaio del 1972,  previo accordo tra l’università madre di Pavia e l’ospedale di Circolo, il radicamento a Varese di corsi pareggiati di Medicina. Anatomia patologica la prima lezione delocalizzata, in cattedra il professor Delfino Barbieri, l’aula una cantina dell’edificio che nel vecchio nosocomio ospitava i letti di Geriatria. Il padiglione era intitolato a due benefattori, Achille Cattaneo e la sua consorte. Cherubino arrivò sotto il Sacro Monte nella seconda ondata di immigrazione accademica da Pavia. Clima teso: gli ospedalieri, alcuni bravissimi (Sala, Binaghi, Bortoluzzi, Calvi, Curzio)  non accettavano di essere colonizzati. Avevano ragione. Le cose di stabilizzarono quando i laureati varesini cominciarono a essere sistemati dai maestri in questo e quel ospedale facendo valere la stoffa rubata ai loro “sarti”. Dicono che le biografie si pubblicano da remoto. Quelle in presenza, per usare un termine di moda, hanno un pregio che Matteo Inzaghi si è giocato bene potendo spolpare ricordi e conversazioni. D’altra pare con tra le mani un toscanaccio alla Bartali (l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare), un personaggio che nemmeno il suo amico e paziente Francesco Cossiga riuscì a trasformare in un mellifluo democristiano, beh il compito è stato facile 

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