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Dante nel deserto iracheno

  • Gianni Spartà
  • 11/03/2021
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Il potere dei papi

La lingua di Dante che ha echeggiato nei deserti dell’Iraq, sullo sfondo di chiese distrutte dagli uomini neri del Califfato, ci ha fatto sentire orgogliosi di essere italiani e cattolici . Non fossimo un Paese di masochisti ne trarremmo la forza, non solo di schiacciare la testa al Covid sotto il tacco del vaccino, anche di non disperdere gli effetti spirituali e geopolitici dello straordinario viaggio compiuto da Francesco. Che si deve al coraggio, in apparenza incosciente, di un papa fatto così,  ma anche all’autorevolezza dell’unica diplomazia occidentale capace di schierarsi apertamente contro la guerra, di andare a casa dell’ ayatollah Alì Sistani, eminenza grigia sciita, di farsi ascoltare da lui e dai suoi in un’ora di fitto dialogo. Sarebbe impensabile per qualsiasi sovrano laico, in questo momento, sedersi con la veste bianca di fronte al “nemico” e ricordargli che la terra sulla quale le soldataglie dell’Isis hanno sparso sangue cristiano è la stessa calcata da Abramo prima di Cristo. Bergoglio ci è riuscito smuovendo subito qualcosa: il presidente dell’Iraq ha annunciato la proclamazione di una giornata dedicata nel suo Paese al confronto tra le religioni, il Natale sarà sdoganato come festività riconosciuta dagli iracheni. Tanti momenti di questo viaggio pontificio entreranno nella storia universale: la traduzione delle parole di Francesco in arabo, in inglese, in caldeo, in curdo e in aramaico, la lingua di Gesù; la lettura nella stessa liturgia del libro della Genesi e di alcune sure del Corano. Massima evidenza mediatica per la consapevolezza che c’è un solo Dio, lo si preghi da Roma, da Mosul, da Tel Aviv, che ci sono valori identici nella diversità delle tradizioni e delle civiltà. Sostenere il contrario è l’espediente maligno utilizzato dagli ambasciatori di morte, dagli autori di persecuzioni e genocidi, da chi si sporca le mani vendendo armi nella clandestinità. E’ un Papa temerario è visionario quello che si è spinto ai confini del tempo con un salto di seimila anni. Egli ha ricominciato il suo pellegrinaggio dopo l’avvento di Biden  in quell’America che nel 2003 accusò l’Iraq di avere arsenali segreti, con questa bugia lo invase e scatenò un conflitto devastante. Il merito: cadde il satrapo Saddam Hussein. La colpa: il Medio Oriente precipitò in un nuovo inferno. Morti e profughi si contano a milioni, sono inenarrabili le distruzioni di patrimoni dell’umanità, terribili il martirio dei cristiani, la profanazione violenta dei loro luoghi di preghiera. Ne sono rimasti trecentomila, ce n’erano cinque volte di più. In questa campo bagnato anche di sangue curdo e musulmano Francesco fa fatto la sua semina senza umane illusioni di un rapido cambiamento. C’è troppo interesse a dividere le fedi per spartirsi il bottino delle guerre. Un miracolo potrebbe farlo la pandemia con i suoi ammonimenti profondi. Ora, il cristianesimo ha conti in rosso in tutto il pianeta, le chiese si svuotano non solo in Italia per la preoccupazione di vescovi e parroci: ci mancava il Covid ad aggravare la dispersione del gregge. E tuttavia si conferma la forza dei papi  rispetto alla debolezza della politica: parliamo di quella mondiale. Abbiamo avuto Trump, è un mistero la monarchia assolutista di Putin, a Hong Kong e nell’ex Birmania la democrazia e i diritti civili sono fatti a pezzi, in Israele ebrei e palestinesi continueranno “a odiarsi platonicamente” come mi disse un papavero della nomenclatura di Tel Aviv durante un viaggio in Terra Santa. Ma i papi non indietreggiano. Come dimenticare la paziente mediazione di Giovanni Paolo II nella Polonia che alzava la testa con Solidarnosc sfidando la legge marziale di Jaruzelski? Alla fine vinse Wojtyla, anche perché durante sotto il suo lungimirante pontificato la bandiera rossa del comunismo s’ammainava per l’ultima volta in cima al  Cremlino. Un altro viaggio come quello di Francesco fece epoca:  era il 6 gennaio del 1964 quando un papa metteva piede per la prima volta su un aereo diretto a Gerusalemme, dove nessun pontefice dell’era moderna era mai stato. Sfidò sospetti e tensioni internazionali l’esile Paolo VI erroneamente considerato ininfluente, forse a causa della sua sofferenza interiore, ampiamente rivalutato per l’enorme eredità teologica e spirituale lasciata ai successori. Anche se non fu santo subito.

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