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Quel ’93 che fu un ’48

  • Gianni Spartà
  • 15/06/2021
  • 0

Varese laboratorio politico

E’ solo una sensazione: chiunque avesse prevalso alla fine, magari al ballottaggio, il duello tra Davide Galimberti e Roberto Maroni sarebbe stato ricco di spunti e forse di sorprese. Non lo diciamo per imbarazzare gli sfidanti del sindaco in carica, ma per incoraggiarli. E per rinverdire una storia accaduta nel 1993 che assegnò a Varese la palma di laboratorio politico nel marasma da caduta degli dei. Quelli della Prima repubblica. La Lega di Bossi aveva stravinto le comunali, la vecchia classe dirigente era stata diserbata da un centinaio d’arresti. Non si era salvato nessuno, nemmeno i comunisti. Lasciamo perdere come finì: processo troppo lungo, prescrizioni, assoluzioni, nessuno di fece male se si eccettuano le ferite del carcere preventivo e dei titoloni sui giornali. Il sindaco, anzi il borgomastro, il primo d’Italia, non lo eleggeva ancora il popolo, ma le sacrestie dei partiti. Due rivali nell’arena pubblica, ma amici nella vita e nel tifo per il Milan, andarono a pranzo al  ristorante Bologna e ne uscirono, oltre che col conto, con uno schema: uno era Roberto Maroni, segretario del Carroccio provinciale, l’altro Daniele Marantelli, suo omologo per l’ex pci. La leggenda dice che misero nero su bianco nomi e formule dopo il primo: un piatto di pennette al pomodoro. In serata uno che nessuno sapeva chi fosse, Raimondo Fassa, professore alle serali in una scuola di Gallarate, eloquio da erudito, portamento e grisaglia da baronetto inglese, seppe dai cronisti che sarebbe diventato l’erede novecentesco del Duca d’Este insediandosi sul suo trono al primo piano del palazzo di via Sacco. Andava  così e così andò, perché, come la monaca di Monza, lo sciagurato rispose. Ma non ci sarebbe stata nessuna sciagura né per lui, allievo di Gianfranco Miglio, né per Varese politicamente terremotata.  Dal cilindro calcisticamente rossonero del Gatto e la Volpe spuntò, con la benedizione di Bossi, una giunta a guida leghista, infarcita di assessori civici, puntellata all’esterno dal partito democratico della sinistra, oggi Pd. Una giunta che avrebbe perso per strada quasi subito il titolare della Cultura, il maestro della patafisica Enrico Baj (“non c’è una lira, che cosa ci faccio qui?) , ma che avrebbe dignitosamente governato cinque anni tra alti e bassi. Fassa superstar in televisione, ospite di Enzo Biagi al “Fatto” che andava in onda dopo il tg della sera, il suo vice Piergianni Bianchieri ai remi con l’allora segretario generale Antonio Conte. La città la pilotavano loro. In politica nulla si crea, nulla si distrugge, tutto di ripete. C’è una differenza non ostativa: allora  Lega e Forza Italia non erano al governo insieme  ai Democratici, indisciplinati nelle interviste, orecchie da cocker quando Mario Draghi, senza alzare le voce, dice che cosa bisogna fare. Variabili: ciò che resta dei Cinque Stelle, ciò che partorirà  il fenomeno Meloni, ciò che meditano di fare civici e neocentristi. Ecco, fatevi un’idea voi. Noi vi abbiamo rinfrescato la memoria. 

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