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Al di qua e al di là

  • Gianni Spartà
  • 05/07/2021
  • 0

Detenuti dimenticati

I detenuti italiani sono da anni privi di patrocino politico e spirituale. Non c’è più Marco Pannella che con i suoi digiuni martellava il legislatore; è nella gloria dei santi Giovanni Paolo II che nel 2000, l’anno del giubileo, implorò un’amnistia ospite del Parlamento repubblicano a camere riunite. Fu applaudito a lungo,  esaudito mai. L’ultima concessione di un atto collettivo di clemenza risale al 1990. Si esce di prigione non per legge, ma per il suo diniego: fioccano le prescrizioni dei processi che, di tanto in tanto, ci restituiscono liberi e belli pericolosi criminali. E il giorno dopo si strepita, ignorando che il vero nodo di una giustizia giusta non è la separazione delle carriere e nemmeno un Csm da rimettere in riga, pur nella gravità di certe devianze. Il vero nodo è la gente che marcisce in carcere, a volte per reati da quattro soldi, attendendo il giorno del giudizio definitivo. Se la Corte di Strasburgo spesso ci tira le orecchie per come trattiamo i prigionieri, Stati generali sul tema cruciale dell’esecuzione delle pene (articolo del direttore Daniele Bellasio sulla Prealpina del 2 luglio) sono più urgenti della generica riforma cui sta dedicando energie la ministra Marta Cartabia. Un Paese culla del diritto, non può scadere a tomba delle sentenze. Un colpo di spugna giudiziario sarebbe tecnicamente opportuno.  Non per pietà cristiana, ma per laico stato di necessità. Certo: beato il Paese che non ha bisogno di amnistie e indulti. Maledetto quello che si sveglia solo quando nel reclusorio di Santa Maria Capua a Vetere agenti della polizia penitenziaria picchiano le persone, anche disabili, che hanno in custodia. L’unico episodio indegno? No, se ne sono verificati in altre città. Tanti. Disagio contro violenza. Una guerra tra poveri, ma non è accettabile che indossino la divisa e brandiscano manganelli. Si farà luce. Ci sono immagini che si stampano per sempre nella memoria di un cronista. Una è la bottiglia dell’acqua Panna, legata a una garza d’ospedale e infilata nel buco del water per respingere l’invasione di pantegane all’interno delle celle ai Miogni di Varese. La notai durante una visita autorizzata alla fine degli anni ’80. Di lì  a poco le porte del carcere  ottocentesco, che generazioni di amministratori hanno di chiudere e trasferire altrove, si sarebbero spalancate per accogliere detenuti vip: sindaci, assessori, segretari di partito in quota tangentopoli. Anch’essi avrebbero sperimentato il massacro dei diritti del prigioniero e una volta fuori se ne sarebbero fatti carico per un quarto d’ora con interviste ai giornali. Non è più così: i Miogni sono stati ammodernati e risanati, due ospiti per cella contro i cinque di quei tempi orribili. C’è un orto coltivato da un gruppo di detenuti, altri riparano biciclette dopo aver seguito corsi di formazione e si guadagnano una paghetta. Un modello. Ma se a Busto hanno costruito in periferia un carcere di massima sicurezza, nel capoluogo la casa circondariale decrepita  fuori e dentro, continua a essere  piantata come un croce davanti alla scuola elementare intitolata a Felicita Morandi, un’educatrice. Assurdo urbanistico: siamo a due passi dal centro storico. Situazione socialmente incongrua. Era Guardasigilli Roberto Castelli quando la Lombardia si diede l’impegno di costruire nuove carceri, anche a Varese dove si era individuato un terreno nella piana di Lozza. Macchè. Tutto come prima. Progetto uscito per sempre dall’agenda. Non se ne parla più e invece se ne dovrebbe parlare, magari in questo inizio di campagna elettorale che sarà lunga; elezioni amministrative,  Quirinale, Parlamento. E’ in questo lasso di tempo, auspicabilmente fecondo, che giocano le partite importanti. Lo è  occuparsi di chi è finito al di là del muro e non sempre è  peggiore di ci cammina al di qua. Ne va della coscienza nazionale. 

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