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Morire per la legalità

  • Gianni Spartà
  • 07/07/2021
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Vincenzo Ciappina 1991-2021

C’è una Verità assoluta, scritta con la V maiuscola, il cui garante, per chi crede, è trascendentale, divino. Poi ci sono le verità degli uomini, relative, minuscole, contraddittorie, a volte meschine, delle quali si fanno interpreti i tribunali. In nome di una di queste verità un uomo di Casale Litta, origini calabresi, certificato penale robusto, condanne per storie di ‘ndrangheta, è stato fortemente sospettato d’aver ordinato l’esecuzione di Vincenzo Ciappina, 48 anni, avvocato suo avversario in una causa che riguardava il possesso di alcune zolle di terra. Verga la chiamava la roba. Ma per mancanza di prove seriamente cercate, a dispetto di indizi schiaccianti, univoci, tempestivi, quest’uomo è stato rintracciato, interrogato, mai indagato. Aveva un alibi di ferro. O forse ha avuto il tempo di procurarselo. Potrebbe essere già morto.  Sono passati trent’anni esatti: 1991-2021. Era la mattina dell’8 luglio. Si scorrono le cronache giudiziarie che hanno più impressionato, deluso, mortificato la pubblica opinione in questa provincia e dopo il clamoroso fallimento del tentativo di dare un nome all’assassino di Lidia Macchi, viene la stupefacente arrendevolezza  - come altro chiamarla? – che ha impedito di portare in aula l’omicidio di Vincenzo Ciappina. Per la ragazza accoltellata 29 volte a Cittiglio, c’è stato l’errore di voler incastrare il presunto assassino a sei lustri dal delitto sapendo che prove autentiche non ne erano state trovate. O erano state distrutte. Ma un uomo si è fatto tre anni e mezzo in carcere preventivo e alle fine assolto. Stato di diritto? Per Vincenzo, un amico appassionato di bicicletta, con il quale saremmo dovuti partire Emilio, Fernando e il sottoscritto  diretti in Sicilia, 9 tappe, 1575 chilometri, sotto il sole d’agosto, per Vincenzo, dicevamo, niente e così sia. Ed era un avvocato e sua figlia Francesca oggi fa l’avvocato e sua moglie Licia, gli altri figli Michele ingegnere, Marta ballerina internazionale, tutti e quattro non hanno avuto giustizia pur sapendo come sono andate le cose. I Ciappina sono di Palmi: Vincenzo aveva un fratello, Antonio, per tanti anni insegnante di italiano al liceo. Conosciutissimi. Quell’estate maledetta Vincenzo aveva annunciato il suo progetto alla moglie: “Faccio un raid in bici, mi sto allenando. Da Varese allo Stretto, ma io mi fermo prima, in Calabria. Torno a prendervi. Tranquilli: ce la farò”. L’otto luglio del 1991 l’agguato nel cortile nel cortile della sua casa a Biandronno.  Il ricordo di Licia: “Quella mattina mi ero svegliata presto perché Marta, la figlia più piccola, partiva per una gita a Gardaland con i ragazzi dell’oratorio. Faceva molto caldo. Vincenzo si alzò più tardi per andare al lavoro. Di solito lo accompagnavo al garage, quella volta restai in cucina. Dopo qualche istante sentii un botto tremendo che mi fece pensare a una bomba. Mi precipitai fuori, lo vidi per terra nel sangue, arrivarono Francesca e Michele, quasi nudi, che dormivano al primo piano. Capii che non c’era più niente da fare. Guardai in giro nel giardino: nessuno”. Il volto sfigurato da due colpi, forse un fucile a pallettoni, la camicia bianca arrossata, a poca distanza dal corpo rimasugli di fieno lasciati lì dal giardiniere che teneva in ordine la villa in cima a una collinetta nella campagna tra Bregano e Biandronno. “Ammazzato per vendetta. Punito per quella causa che gli aveva tolto la pace: per me è l’unica ipotesi valida”, raccontò subito Licia ai carabinieri e ai magistrati. “Me ne convinsi nei giorni successivi, pensando e ripensando alle parole di Vincenzo, ai suoi gesti, alle sue paure. Ma è andata come sapete. E mi duole che i nostri figli non abbiano avuto soddisfazione pubblica, che non abbiano saputo, per bocca di un giudice, la verità sulla morte del loro papà. Mi ero illusa di un pentimento, di una confessione tardiva, magari a opera degli autori materiali del delitto. A un certo punto ci avevano detto che in un carcere uno dei killer aveva parlato. Niente. Farsene una ragione è stato difficile”.  Come ignorare che, rivelando le minacce subite in un circostanziata denuncia presentata ai carabinieri addirittura nel 1983 e confidando i suoi timori al sindaco di Casale Litta, suo amico, l’avvocato Ciappina aveva in un certo senso reso pubblico il movente d’una fine annunciata? E infatti gli investigatori quell’unica pista hanno battuto senza però arrivare al dunque. Già la sera dell’8 luglio 1991 andarono a cercare il sospettato e non lo trovarono: era in Francia. Il giorno dopo sottoposero alla prova del guanto di paraffina il figlio di lui. Poi rintracciarono e interrogarono il calabrese di Casale Litta ma l’inchiesta è rimasta lì nel cimitero dei delitti impuniti. Così agonizza la speranza di giustizia. No, la Verità, quella con la V maiuscola, non è affare di questo mondo.    

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