Profughi, la lezione italiana
- Gianni Spartà
- 05/09/2021
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Chi potrebbe farlo oggi ciò che da sola - in piena guerra fredda, con le immagini fresche degli americani in fuga da Saigon - s’inventò l’Italia di Andreotti, pressata, bisogna dirlo, da vescovi allora più rilevanti? Tutto è cambiato: in politica, nella società civile, anche nella Chiesa. A chi verrebbe in mente nell’Occidente in debito verso quanti a Kabul hanno creduto nei suoi valori, di mandare mezzi militari a raccogliere profughi perseguitati dai talebani del tempo: comunisti feroci che in Vietnam cancellavano il passato riempiendo fosse comuni tra le risaie annerite dal napalm? a risposta temuta è: a nessuno. Non si sta mettendo in moto nulla nell’Europa che non c’è; che non ha un esercito proprio e un governo forte; che dopo le scene terrificanti di afghani aggrappati ai C130 in decollo precipitoso, non sa come organizzare corridoi umanitari. E intanto nei Paesi membri chi pronuncia la parola accoglienza è tacciato di blasfemia. C’era una canzone degli Stadio, il ritornello faceva: chi erano mai questi Beatles? La si potrebbe adattare ai tempi nostri: chi erano mai questi boat-people? Erano mille, uomini donne, bambini alla deriva su barcacce nel Mar Giallo e li hanno salvati gli italiani senza prendere ordini. Con amore e dignità. Nessun paragone è possibile per storia, epoca, protagonisti tra la diaspora dal Vietnam liberato e l’Afghanistan lasciato in croce. Ma ricordare la più bella storia italiana, dieci giorni di navigazione da Taranto con ritorno vittorioso a Venezia, è motivo di orgoglio. In 1979 gli altri stati europei ignoravano la tragedia umanitaria: prudente la Francia che aveva avuto colonie laggiù, irritati e imbarazzati gli americani come lo sono oggi per il fallimento a Kabul. Noi andammo a raggiungere quei disgraziati dall’altra parte del mondo, 907 per la precisione, e li strappammo alla morte. Oggi sono una vivace comunità attorno alla laguna. A capo della missione Andreotti volle Giuseppe Zamberletti reduce dal dopo terremoto in Friuli. Andrea Doria, Vittorio Veneto e Stromboli, gioielli della Marina militare, si trasformarono in centri d’accoglienza, in ospedali, in luoghi di ristoro una volta intercettati i primi 128 naufraghi davanti alle coste della Thailandia. La presenza a bordo di un nunzio apostolico rese esplicite le pressioni della Conferenza dei vescovi perché l’Italia agisse. Un sacerdote cinese fungeva da portavoce e ogni volta che la flotta incrociava carrette stracariche, prendeva il microfono e trasmetteva il messaggio concordato: queste navi sono italiane e sono venute per aiutarvi. Se volete salire sarete portati in Italia, non in altre nazioni, come rifugiati; altrimenti riceverete cibo, acqua, assistenza medica. In quell’estate crudele, come l’attuale, i boat-people sapevano che i vincitori avrebbero ridotto i loro villaggi in un enorme gulag ed erano consapevoli dei metodi: torture, massacri, lavori forzati, genocidio nello stile cambogiano di Pol Pot e dei khmer rossi. Era rieducazione violenta, la stessa che temono a Kabul di fronte all’integralismo talebano. Perché si mosse solo l’Italia? Per i pregi e i difetti di un popolo sensibile. Perché il quel momento governava l’uomo politico più vicino alle gerarchie ecclesiastiche. Perché le gerarchie ecclesiastiche contavano paradossalmente più di ora che sul soglio di Pietro un Papa sudamericano sensibile al dramma di rifugiati e profughi. La crociata italiana con navi da guerra usate per finalità caritatevoli può, rievocata ora, può ridestare speranza.