Le pericolose illusioni
- Gianni Spartà
- 10/12/2021
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Draghi parli agli italiani
Eravamo alla fine degli anni ’80 quando Giovanni Agnelli, lasciando il meeting Ambrosetti a Cernobbio, liquidò la torma di cronisti economici che lo assediava, con quattro parole quattro: “La festa è finita”. Il suo dire scatenò la dotta esegesi su tutta la stampa nazionale e internazionale. Eppure il messaggio era semplice, comprensibile, populista volendo usare un aggettivo alla moda. L’Avvocato ancora padrone della Fiat, e forse proprio per questo, paventava la frenata di tutti gli indici congiunturali, fino a quel momento floridi, e presagiva ciò che a breve sarebbe accaduto. Oggi c’è un personaggio, uno solo, che quarant’anni dopo, dovrebbe rompere gli indugi e parlare con la stessa franchezza al Paese: Mario Draghi. Perché le cose vanno male? No, perché vanno bene. Persino i prestigiatori del rating quotano al rialzo le azioni dell’Italia. E le previsioni sul Pil hanno lo stesso segno “piu” di fronte a una cifra di tutto rispetto: sei e rotti per cento. Bel tempo in Val Padana, insomma, e pazienza per la nebbia nel Mezzogiorno ormai condannato all’esclusione con i suoi cronici ritardi. Bugie sull’Alta Velocità da Salerno in giù, non parliamo del Ponte sullo Stretto fuori dai radar per sempre: era un progetto di integrazione europea, ce lo volevano quasi regalare i cinesi interessati a far arrivare in quindici ore filate le loro merci in uscita dal canale di Suez nei porti del Grande Nord, Helsinki, Rotterdam, con vantaggi spalmati su tutto il vecchio continente. Chi si sentì sconfitto fu il gran democristiano Giuseppe Zamberletti a capo della società che doveva costruire l’opera (miliardi gettati al vento). Si sgolò fino all’ultimo contro l’abbandono del progetto. Aveva le prove che Pechino faceva sul serio. E diceva che con quella campata unica tra Scilla e Cariddi le Ferrovie avrebbero allungato davvero le linee dell’Alta Velocità evitando che Cristo continuasse a fermarsi a Eboli. Torniamo a Draghi convinti che egli potrebbe rimanere dov’è e lasciare a un altro, meglio a un’altra, l’onore del Colle se avesse un sosia. Ma non ce l’ha, con l’aria che tira, e questo è un guaio. Un conformismo a volte fastidioso attorno alla sua autorevolezza, da una parte gli attribuisce il titolo del premier più importante del dopoguerra; dall’altra alimenta “pericolose illusioni” (immagine coniata da Ferruccio De Bortoli ) su quanto sta accadendo. Di buono, certo, perché servono cantieri di nuovo aperti con i soldi del Pnrr; perché un palazzo su tre è ingabbiato nei ponteggi finanziati grazie agli incentivi per la casa; e perché, a parole, la transizione ecologia sembra entrata nella testa di tutti. (Su quella digitale nutriamo forti dubbi: fatta così, senza consenso informato, c’è il rischio di lasciare indietro una moltitudine. Ci sono più anziani che bambini). Di cattivo - anche questa è certezza - perché una parolina dimenticata, “debito”, potrebbe trasformarsi, una volta smaltita la potente dose di anestesia, in un boomerang sulla faccia delle nuove generazioni. E su una patrimoniale sulle orecchie delle vecchie. Tutto molto bello, fin qui, sempre per una cerchia di ceti dominanti o di categorie favorite, ma il risveglio sarà duro se la festa non sarà dichiarata agli sgoccioli. E da chi se non dal drago plurale? Super Mario può gestire la fase del risveglio e solo lui, non domani, ma oggi, deve indirizzare la comunicazione istituzionale sui temi del dopo ripresa. Difficile con il Covid non ancora domato, non impossibile se si vuole riportare il Paese con i piedi per terra.