Gennaio maledetto
- Gianni Spartà
- 19/01/2022
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I delitti dell’inverno
Capita sempre a gennaio, comunque in inverno, come se una maledizione astrale condannasse i mesi più freddi a prestare i loro giorni alle esercitazioni di odio. Giudicando dal di fuori, capita tutto all’ìmprovviso: il palcoscenico dell’insospettabile si sfonda e precipita nel sangue povere vittime che solo poi si scoprono predestinate. Il bambino di sette anni ucciso dal padre a Morazzone per fare un dispetto alla madre è una vicenda atroce, non diversa da quella di Fatima, quattro anni, caduta da un balcone nei giorni scorsi a Torino, per mano del patrigno. Forse è analogo lo scenario. Alle latitudini varesine nessuno dimentica la strage dei fornai a Cadrezzate (Epifania del 1998) ed è sempre aperta, anzi si è riaperta dopo un frettoloso processo a distanza di trent’anni, la ferita delle ventinove coltellate inferte il sei gennaio, ma del 1987 a Lidia Macchi. La giustizia è arrivata tardi, è arrivata male: un vecchio amico della ragazza si è fatto tre anni e mezzo di carcere preventivo e l’ergastolo in primo grado è diventato assoluzione piena nel secondo. Ogni omicidio fa storia a sé, a volte in maniera grottesca. Ed eccola la diagnosi sociologica: il male di vivere si perpetua nel tempo con scarse sfumature legate all’epoca dei fatti, una metastasi corrode progressivamente organismi in apparenza sani. C’è un fondo di mistero che ci si illude di perlustrare con la scienza psichiatrica. Ma non c’entra la follia conclamata, non c’entra il crimine organizzato con le sue leggi crudeli e non c’entra nemmeno l’extracomunitario, molte volte colpevole, divenuto in questi anni disperati il Cireneo sulle cui spalle è stata caricata la croce individuale per scaricare la coscienza collettiva.
C’entrano invece ragionevoli mostri, come li chiama la criminologia, capaci di trasformare la quotidianità in esplosioni di gesti estremi. Tutto bene all’esterno, tutto marcio dentro, nel fondo di un’anima disperata nella quale, nascosta, imperscrutabile, sospettabile solo dopo, cova una miscela di veleni che a un certo punto esplode. Il Varesotto ha dato pane a studiosi che tentano di interpretare la crudeltà delle mani mozzate (omicidio di Cocquio Trevisago, 2009) e per farlo scomodano rituali tipici di altre culture; che cercano di leggere nella mente di un ragazzino cui non è bastato finire con una sprangata il compagno di giochi Dean, lo ha pure seppellito nell’orto di casa a Varese (2011) quando forse non era ancora morto; che si arrovellano, infine, appresso ad assassini travestiti da Bestie di Satana (Golasecca, 2004) colpevoli di aver impastato sangue e terriccio per nascondere in un bosco il cadavere di un’amica e di averne indotto altri al suicidio. Già: fu stata questa brutta vicenda, seguita da tutta la stampa internazionale) a farci prendere confidenza col furore indiavolato, col narcisismo maligno, anche con la provocazione del perdono: un padre straordinario non abbanbonò in carcere l’assassina di sua figlia, la fece studiare durante la carcerazione, le consentì di diventare giornalista. Ci sono stati in questi territorio delitti di mafia: fu ucciso qui il figlio di Cutolo.. «Finchè si ammazzano tra di loro…», si diceva. E la vita continuava nella consapevolezza, tra i buoni, di essere al riparo dal contagio dei cattivi. Ma ammazzare non stanca anche fuori dai clan. Complice l’anestesia dei sentimenti umani.