Salvate il soldato Ryan russo
- Gianni Spartà
- 02/04/2022
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Dov’è Dio quando una guerra si scatena e per la cupidigia di un satrapo donne partoriscono nei bunker, bambini cadono sotto un bombardamento, non c’è pietà nemmeno per gli ospedali e la Croce Rossa? E’ abitudine degli uomini, credenti o scettici, interrogare il cielo per trovare almeno lassù la causa di un’ingiustizia, o addirittura per addebitargliela: come può restare indifferente a una catastrofe umanitaria un padre buono e onnipotente? Mentre non si consolidano le speranze di un cessate il fuoco, la domanda può essere un’altra. Dove sono i cristiani capaci di superare le divisioni tra le varie chiese, la russa, l’ucraina, la cattolica, la protestante, la greco-ortodossa e di far sentire la loro voce univoca perché trionfi un comandamento comune a tutti: non uccidere? La mancanza di un G7 della fede, di un summit degli ottimati di Gesù Cristo, provoca un silenzio assordante, superiore al frastuono di cannoni e missili. C’è un papa di nome Francesco che ogni giorno trova aggettivi più agghiaccianti per condannare quanto sta accadendo: direbbe e farebbe di più se il “politicamente corretto” non fosse d’ostacolo anche a uno come lui. Medita in questi giorni una missione personale. Ma si percepisce la sua solitudine mediatica, si capisce come sanguini vistosamente la ferita di un cristianesimo disperso e dispersivo, anche sul fronte di una guerra vicina. Non per il confronto difficile con altre religioni, musulmana, buddista, ma per il dialogo inesistente attorno a un principio universale del Vangelo: “Il vostro parlare sia Si, sì: No, no: il di più viene dal maligno”. Pare dominare il “ma” e pare che i santi della chiesa russa, per lo più “stolti in Cristo”, e cioè vagabondi della fede solo apparentemente folli, siano altra cosa rispetto alle categorie riconosciute in Occidente. Non dovrebbe essere così. E questa sensazione di irrilevanza invade il mondo laico se si pensa che a condurre finora tentativi forse non vani di contenere l’offensiva di Putin è il turco Erdogan, definito “un dittatore” dal nostro presidente del Consiglio Mario Draghi. Vero che Ankara non disdegna l’Europa e il suo mercato: da qui al 2050 la Turchia sarà la sesta potenza nel mondo per prodotto interno lordo, dicono le previsioni macroeconomiche. Ma fa specie la delega a un soggetto politico terzo, evidentemente non inviso allo Zar, per riappacificare il vecchio continente di cui la Russia è parte integrante nella storia e nella cultura. E’ amaro dirlo: la trattativa fa i conti più con gli affari che con i morti. Sul tavolo ci sono i futuri assetti geopolitici che alla fine contempleranno, da quel che si intuisce, l’anelato approdo di Kiev nella Ue-Nato e la definitiva conquista delle regioni affacciate sul Mar Nero per mano di Putin. Si è già preso la Crimea, per chiudere il cerchio gli mancano le repubbliche autonome del Donbass, martoriate dai suoi missili. Potrebbe bastargli. con buona pace anche di Erdogan. Ma tutto questo sta bene al popolo russo? Come vivono i sudditi di Mosca il disegno imperialista del loro presidente? Che cosa sanno, soprattutto, del bilancio di vite perdute anche tra le schiere dei loro giovani soldati? Ci viene in mente il soldato Ryan con le ultime scene del celebre film hollywoodiano nelle quali ufficiali dell’esercito americano vanno di casa in casa a notificare a madri, padri, fratelli la morte di loro cari, uccisi in combattimento. Per ora essi figurano dispersi, spariti, nascosti in qualche retrovia alle porte delle città dell’Ucraina. Poi verrà il momento della verità atroce. Caduti, morti, salme da identificare. Solo allora sarà chiara anche ai russi, specialmente a quelli delle steppe sterminate, l’entità della tragedia.