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Ma cosa manca a Varese?

  • Gianni Spartà
  • 08/04/2022
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La città allo specchio

Nei giorni in cui la bella viandante si ferma a fotografare la fioritura della storica magnolia all’incrocio Sanvito-Verdi, è piacevole vedere che Varese dibatte su Prealpina i temi della cultura, della bellezza, dei valori dell’anima. Rispetto alla cittadinanza onoraria da dare a Berlusconi e da revocare al Duce, è un passo avanti. E su che cosa si posa l’attenzione? Sui nostri due gioielli: il Sacro Monte e il lago.  Qualcuno resta scettico: già visto e sentito. Qualcun altro si diverte e posta su Facebook il primo piano di una melma biancastra spalmata sulle rive della Schiranna. Commento: lasciate il bagnoschiuma a casa se davvero, come dicono, tornerete a tuffarvi qui ad agosto. Lo trovate qui. In ogni caso è positivo che la città si appassioni ai destini del suo patrimonio tra orribili echi di guerra. Anzi, è positivo che genericamente si appassioni. Quanta indifferenza in anni recenti per la sorte di altri simboli, banche perse, aziende svendute, atenei indesiderati. La Via sacra fece notizia l’ultima volta quando una fetta consistente della pubblica opinione si mise di traverso davanti alle ruspe che dovevano sbancare la montagna per interrarvi un garage alla Prima cappella. Meglio ripristinare il secondo ramo delle funicolari e incentivare l’utilizzo del  primo, troppo spesso spopolato. Il Sacro Monte non ha modificato la sua caratteristica originaria: non è Loreto, Pompei, Fatima, è comunque un luogo mariano da raggiungere a piedi e in preghiera. E passi se con gli anni il footing in molti casi  ha sostituito la fede. E’ un teatro montano, come scriveva Giovanni Testori, un susseguirsi di stazioni che invitano a riflettere sui misteri del rosario. L’emozione religiosa, in uno scenario naturale straordinario, la dà la salita fisica. A patto di non ritrovarsi, un a volta lassù, in un deserto di bellezza spirituale, ma pur sempre deserto. Più s’interrogava Piero Chiara, più non riusciva a individuare che cosa mancasse davvero alle nostre latitudini e di che cosa si sentisse bisogno. Era un modo per emendare le lacune di gente che conosceva bene: persone riservate, avvezze a procedere con passo felpato, poco ciarliere in pubblico, propense a pettegolare in privato, come accade solo dove la vita di una comunità ha ancora “affabile misura e umano senso”. Di Varese, dove potrebbe abitare Einstein ed essere considerato un uomo qualunque, il maestro celebrava l’accettazione del mondo così com’è. Un’accettazione da “calma piatta” che gli ricordava Luino e il suo lago quando non tira vento né da Nord né da Sud. Di queste indolenze, trattate con ironia, mai con sarcasmo, Pierino era impareggiabile ritrattista. E rendendole pubbliche  non traeva vantaggio alcuno, soprattutto tra  personaggi che nelle sue novelle trafiggeva con i loro vizi nascosti e le loro virtù esposte. I nomi erano di fantasia, il Migliavacca, il Vanghetta, il Paronzini, le figure vere, in carne e ossa. I varesini, secondo Chiara, erano e probabilmente sono ancora, conservatori nel senso buono del termine. Certamente non rivoluzionari. Erano, e probabilmente saranno sempre, privi di audacie, poco amanti della grandi e piccole novità. Forse questo dipendeva (dipende) dal clima sereno, distensivo, dalle condizioni di vita favorevoli all’individuo, più che alla società nel suo complesso. E allora domandiamoci  se Varese no vada bene così com’è alle classi dirigenti di ieri e di oggi, intendendosi non solo la politica, ma il sistema socio-economico. Il problema è capire se ce ne dobbiamo felicitare oppure preoccupare

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