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Perdere la faccia

  • Gianni Spartà
  • 02/06/2022
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Putin e noi

Mettiamola così: l’Italia con la sua classe politica non è in grado di nominare un presidente del consiglio e non da ora, ma  dal 2011 quando Giorgio Napolitano inaugurò con la designazione di Mario Monti l’era del presidenzialismo di fatto. Nel quale siamo immersi fino al collo, un po’ a nostra insaputa, un po’ sapendo e tacendo per stato di necessità o legittima difesa. Da quel dì nessun premier è andato in orbita salendo sulla rampa di lancio del parlamento, certificatore passivo di presenze aliene, né tanto meno è stato scelto dal popolo. Al quale il nominato non eletto potrebbe dire plausibilmente: lei non sa chi sono io. L’Italia con la sua classe politica non riesce nemmeno ad eleggere il capo dello Stato. Lo scorso gennaio fummo tutti sollevati dalla retromarcia di Sergio Mattarella che se ne voleva andare ed è rimasto dov’è. Grazie presidente, ma lei sa benissimo che dover prolungare un mandato scaduto significa prendere atto di gravi patologie di sistema. Si noti che nel libretto di manutenzione della nostra democrazia la nomina del presidente della Repubblica è la voce con i tempi di revisione più lunghi: sette anni. Ma tant’è. C’era da aspettarsi che i partiti mortificati dalla doppia sconfitta, a Palazzo Chigi e al Colle, si mettessero pancia a terra per evitare la definitiva dissoluzione di se stessi. Che facessero quadrato attorno a Draghi e a Mattarella pianificando una rinascenza. Che riflettessero sulla loro conclamata irrilevanza sostanziale attenuata dal chiasso effimero sui social. Macché: è ripreso il gioco al massacro contro la pazienza dei cittadini non più votanti al 50 per cento e la stabilità del governo in equilibrio precario. Succede a Draghi, ma è solo un esempio, che uno dei sui si alzi una mattina è annunci urbi et orbi: “Andrò a parlare con Putin”. Il che è un suo diritto ma non il giorno dopo che con Putin ha parlato il suo capo, cioè Draghi. In questo modo il diritto degrada a rovescio in un clima pessimo. Anche l’Italia è in guerra perché se un Paese fornisce armi tramite il suo sindacato, l’alleanza atlantica, primo investe risorse dei propri contribuenti, secondo si assume responsabilità, terzo deve tenere la barra a dritta sul piano politico. Se un leader dell’equipaggio fa uno sgambetto al suo capitano la rotta è persa, la faccia pure. Non ci sono solo i bombardamenti. C’è anche la guerra del grano e c’è un quadro economico che si sta deteriorando in tutta Europa con conseguenze sullo scacchiere geopolitico imprevedibili fino a un certo punto: l’America ha un presidente preoccupante , le tigri asiatiche, silenti in apparenza finora, quando spalancheranno le fauci non aggrediranno di certo la Russia. Intanto si raccolgono i primi cocci nell’area mediterranea di cui l’Italia è  la regina più esposta: la guerra sta facendo crescere nel mondo il numero di persone che non hanno da mangiare in Africa e in India, se Putin non toglie il blocco navale davanti ai porti dell’Ucraina e ventidue milioni di tonnellate marciscono nelle stive, la crisi umanitaria diventa catastrofe alimentare con  quattrocentomila profughi in Italia, secondo stime dell’intelligence. Capite perché non ci possiamo permetterci le pagliacciate?

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