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Il non detto e il mal fatto

  • Gianni Spartà
  • 18/10/2022
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Lidia Macchi

Un retrogusto fastidioso accompagna la chiusura giudiziaria del caso Macchi. Innanzitutto, non dimentichiamolo, per la rara ferocia con la quale Lidia è stata uccisa da qualcuno di cui si fidava: ventinove coltellate sono tante anche in tempi di orrendi femminicidi. Poi per il cinismo col quale trent’anni dopo hanno esumato il suo corpo e maltrattato il suo spirito: che cosa credevano di trovare i soloni di tutte le branche della criminologia, anche archeologi forensi, pagati a peso d’oro con soldi pubblici? Infine per la pacata reazione di una madre, giorni fa: hanno risarcito con 300mila euro Stefano Binda, a me che cosa dovrebbero dare? Ha ragione, dolce signora Paola, mi permetto la confidenza: da cronista ero in casa sua, di Giorgio, Stefania e Alberto il 7 gennaio 1987 nei minuti in cui trovavano Lidia al Sass di Pinì di Cittiglio e lei non sapeva ancora nulla. Tre volte le hanno detto: abbiamo il volto dell’assassino. Subito un prete; dopo lungo silenzio un serial killer; a gennaio del 2016 un compagno di liceo di  Lidia. Stefano, la promessa di Comunione e Liberazione, il pupillo dell’allora guida spirituale qui a Varese, don Fabio? Sì proprio lui. E’ stato arrestato. Ed era innocente. E la magistratura di Milano ha preso una strambata, vai a capire perché con a bordo skipper di livello. E quel tipo di Brebbia s’è fatto tre anni e mezzo di carcere ingiusto e adesso tace ma non troppo. In un video rintracciabile sul web Stefano dice testualmente: “Il sistema è strutturato in modo tale che se io rispondessi a domande su perché sono stato incarcerato commetterei dei reati”. A chi pensa Binda? Ai giudici o ad amici e amiche dell’epoca? Ai giudici senz’altro, quando osserva nello stesso video che imputati d’omicidio come lui erano liberi durante i vari processi. Sono finiti tra le sbarre, se ci sono finiti, soltanto dopo la sentenza definitiva. Ma può darsi pensi a chi, con trent’anni di ritardo, ha visto somiglianza tra la sua grafia a quella di una lettera recapitata alla famiglia Macchi.  Amen. La giustizia degli uomini è fallace, quella penale di più.  Succede, è successo, succederà  che un uomo entri da assassino in un tribunale e ne esca vergine da ogni colpa. Succede, è successo, succederà anche il contrario in omaggio alla regola del terzo grado di giudizio per giungere alla migliore delle conclusioni possibili. Il fatto è che nel caso di Lidia Macchi di possibile non rimaneva più nulla, nemmeno in Quarto Grado, quando Binda fu incarcerato. Il processo era ormai azzoppato. Anche da guerre interne: toghe contro toghe. Incredibile ma vera la distruzione dei vetrini sui quali poteva essere rimasto il Dna dell’accoltellatore. Spettacolare l’idea di mobilitare l’esercito per rivoltare un parco cittadino alla ricerca dell’ arma del delitto sulla base del racconto di una testimone: Stefano si era recato in quel parco con un pacchetto pochi giorni dopo il delitto. Non s’è trovato niente di utile, naturalmente. Il processo di primo grado, suggellato da un ergastolo, ha ruotato attorno a una perizia calligrafica su una lettera attribuita a Binda, come quando non c’erano i Ris, ma i vecchi marescialli della Mobile. Con buona pace del colossale dispiego di scienziati che non è servito, purtroppo. Senonché a Varese si erano convinti ci fosse sufficiente materiale indiziario per condannare Binda: atto di indubbio coraggio a sei lustri dai fatti. A Milano, la corte d’appello non se l’è sentita di infliggere il fine pena mai a un uomo di 50 anni senza il sigillo di una prova certa, non suscettibile di interpretazioni contrastanti. Doveva finire così. Non poteva che finire così per un delitto uscito da tempo dalla cronaca e depositato per sempre nelle coscienze. Con qualche senso di colpa. Amen.   

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