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Un teatro per Fo

  • Gianni Spartà
  • 09/12/2022
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La proposta a Varese

di GIANNI SPARTA’ Ascoltandola cantare De Andrè in un Salone Estense stracolmo e vedendola picchiettare un tamburello con una mano educata alla gestualità del teatro, è stato inevitabile pensare che Marina De Juli non si è fatta da sola. Da sola ha imboccato una strada imprevedibile nei favolosi Sessanta quando in Valceresio, terra natale confinante con la Svizzera, vocazioni e tentazioni potevano essere altre. Ma poi ha incontrato Franca Rame, le è diventata amica e allieva. E Franca Rame, encomiabilmente ricordata da una targa nel cuore di Biumo, era la moglie e la musa di Dario Fo, che nessuno ha ricordato. Almeno a Varese.  A proposito di Valceresio e di memoria, formidabile la sera in cui un altro figlio di questa terra, Fausto Papetti, tornò a Viggiù dopo aver girato il mondo, invitato da un glorioso corrispondente della Prealpina, Tullio Buzzi Reschini. Salì su un palco, cominciò a soffiare molecole d’ossigeno nel sassofono di cui era diventato il re, regalò orgoglio imperituro  ai compaesani. Quante storie d’amore propugnate dalle sue cover, quanti figli nati sull’onda di musiche struggenti che all’epoca si ascoltavano dal mangianastri incorporato nell’autoradio. Correva l’anno 1974. Ora Marina De Juli, forse a sua insaputa, fornisce spunti per sconfessare quanti sostengono che la cultura ha poco da raccontare a Varese. Non ci fregiamo di cattedrali gotiche, vero, ma abbiamo incomparabili tesori della storia e del pensiero. Due esempi: è stata appena cementata su un cartello la memoria di Dante Isella, filologo eccelso; a Besano, prima del Covid, in un ano 75mila visitatori americani e cinesi hanno fatto la fila in un minuscolo museo per vedere in un minuscolo museo le impronte fossili di un balenosauro. Insomma se il Varesotto vanta quattro siti considerati patrimonio dell’umanità ce ne dovremmo fare una ragione liberandoci dalla sindrome da minimalismo autodistruttivo. Dove vogliamo arrivare? Alla pubblica orticaria che finora non ha consentito di ri-legare alla sua terra l’unico varesino che ha avuto un Premio Nobel: Dario Fo. Siamo nel terzo millennio,  se non ora quando lasciarsi alle spalle tutto: anche una fatwa del Grande Giullare che aveva giurato di non rimettere piede a Varese nel 1978 e poi ce lo rimise, nel 2013 per promuovere una mostra sull’esperienza parlamentare della Rame. Ma che cos’era successo nel ’78? Che un giornale aveva dato a Fo del rastrellatore di partigiani quando aveva 17 anni, che lui aveva querelato il giornale, che direttore il giornale se l’era cavata con una multa di duecentomila lire, che la parte lese non  aveva avuto una vittoria schiacciante. Tutt’altro. Sì, perché Fo personalmente, non aveva rastrellato nessuno nella Val Cannobina, ma a rigore di documenti risultava arruolato nel raggruppamento Arditi del Battaglione Azzurro  di Tradate che rastrellamenti ne aveva fatti eccome. Il titolo della saga giudiziaria potrebbe essere: Mistero Buffo. Senonché  il non ancora Premio Nobel  non seppe riderci sopra e neanche sotto.  Cascami del passato. Le impuntature possono travolgere anche l’inventore del grammelot, lo strumento recitativo con cui Fo assemblava suoni onomatopeici e parole biascicate. Non sappiamo che cosa possa fare Marina De Juli se non continuare il suo percorso artistico sulle scia di una esperienza  straordinaria: le atmosfere respirate negli spettacoli di Dario e a casa sua con le carte del ramino e una bottiglia di rosso sul tavolo.  Ma sappiamo che in questa terra è nato un Premio Nobel e che ignorarlo per pigrizia o snobismo è da masochisti. C’è opportunità formidabile: stanno per scoccare i cento anni dalla nascita dell’uomo di teatro più ascoltato nel mondo, per quel tempo Varese dovrebbe avere un teatro comunale, l’ex Politeama. Se ci sarà il coraggio di intitolarlo a Dario Fo potremo dire che il Novecento è finito davvero. 

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