La capra di Fo, i cavoli dell’Armando
- Gianni Spartà
- 13/12/2022
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Teatro, a Varese si fanno le scarpe
In quel tempo, “11 ottobre del 1986, ore 16 e 40 minuti primi”, i lasciti testamentari a scopo benefico non erano una rarità. Ma anche a Carlo Gaudenzi, galantuomo per indole, notaio di professione, pilota d’aereo per hobby, provocò una potente scarica d’adrenalina leggere cinque paginette scritte a mano con le quali un “bagatt” (calzolaio) destinava tutto il patrimonio immobiliare e mobiliare a una casa di riposo, “il Molina”. Era, quel tale, Armando Caravatti, classe 1907, varesino emigrato a Buenos Aires dove aveva cominciato riparando scarpe, finendo per fabbricarle e venderle col suo marchio esposto in vetrina. Il calzolaio era diventato re. E morendo a Varese il 3 ottobre del 1986 s’era ricordato dei vecchietti di quell’ospizio vicino alla casa dei suoi genitori, Fortunata e Luigi, per dargli un futuro. In famiglia si faceva la fame: lui ebbe il coraggio di attraversare l’oceano e rinacque.A pochi giorni da un Natale d’angoscia è bello rievocare questa storia. E per chi scrive è piacevole tirare fuori dall’archivio la pagina della Prealpina di 36 anni fa che annunciava la madre di tutte le notizie, quelle buone: sul “Molina”, udite udite, piove un tesoro da quarantasei miliardi di lire in conti correnti, titoli, ville, botteghe e case sparse tra Varese, Gallarate e Milano, persino un vecchio cinematografo della città, il Politeama, distrutto da un incendio negli anni ’70, ricostruito, non bello come prima, al limitare della piazza XX Settembre. Ma chi era questo Caravatti, con due “t”? Chi si ricordava di lui, della sua famiglia, delle persone con le quali era rimasto in contatto negli anni vissuti in Argentina? I cronisti cercarono e trovarono ben poco. Al “Molina” stapparono champagne, la buona novella emozionò la città che al fascino dei danèe (soldi) è sempre stata sensibile. Se non altro per curiosità. Tutta la comunità esultò per la cascata di diamanti sui luoghi della fragilità esistenziale, su una istituzione intitolata a due antichi benefattori, Paolo e Tito Molina, cui il territorio deve molto. Furono profeti: l’invecchiamento della popolazione, da una parte, è il fantastico miracolo del progresso scientifico, dall’altra la dolorosa spina nel fianco del teorema sociale. Ma perché parlare di Caravatti oggi, Dio benedica la sua generosità e la diffonda come esempio ai contemporanei? Perché in una Varese che ha il record delle demolizioni sciagurate (giù il vecchio Teatro Sociale, giù la palazzina liberty del Mercato coperto, giù un bel caseggiato davanti a piazza Monte Grappa, insomma giù tutto il bello, il brutto mai), il Politeama è rimasto in piedi e si medita di farci un teatro comunale. Non è dato sapere quando questo avverrà e se avverrà prima della scadenza dell’attuale amministrazione. Forti dubbi. Solo che la mia idea di intitolare, eventualmente, a Dario Fo il nuovo Politeama ha fatto scoprire una cosa mai comunicata prima. E cioè che per vincolo testamentario il cinema eventualmente trasformato in teatro si dovrà chiamare Politeama Caravatti. Perbacco: chi potrebbe vorrebbe fare un torto al grande Armando? Nessuno. Ma l’ondata di consensi per l’intitolazione a Dario Fo (mi fido di Diego Pisati) ha evidenziato un fatto imprevedibile: pare cambiata in città la sensibilità culturale collettiva, sembrano meno alti gli steccati ideologici, forse il Novecento è davvero finito con i suoi guasti e un personaggio che ha avuto un premio Nobel, sia stato rosso, nero o arcobaleno, è considerato patrimonio mondiale, non varesino. Ora, a Milano il vecchio Piccolo Teatro continua a chiamarsi Piccolo Teatro ma ha fatto in modo di ricordare nelle sue sedi Strehler, Grassi e Mariangela Melato. Si può volare alto o decidere di non sollevarsi da terra. Si possono salvare la capra di Fo e i cavoli di chi strumentalizza l’Armando. Se Caravatti non avesse volato sarebbe rimasto “bagatt”. Invece è diventato “sciur”. E se mai il lascito di un calzolaio tramanderà ai posteri varesini un teatro stabile, beh un redivo Rodari potrebbe scriverci una favola. La più sorprendente in una città che di scarpe ha vissuto cent’anni.