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Silvio e Mario

  • Gianni Spartà
  • 18/06/2023
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Ciao Silvio

Se il funerale di un uomo fosse il provino di una causa di beatificazione il postulatore l’avrebbe stravinta ieri l’altro in piazza Duomo a Milano: Silvio Berlusconi santo subito, amen. E giù applausi, cori, bandiere del Milan, sudore e lacrime. L’Italia non ha assistito a un funerale di stato, ma di popolo. Ecco perché, con formidabile intelligenza umana e pastorale, l’arcivescovo Mario Delpini non ha giudicato, ha descritto, non è andato a sentenza, ha trasmesso il fascicolo alla suprema corte, chiudendo l’omelia più difficile che possa capitare a un parroco. Decida Dio dove collocare il Cavaliere, se nell’alto dei cieli, un po’ più giù, là sotto. Io da questo altare vi dico che cosa lui prediligeva: gli affari, l’amore, la gioia, le famiglie. Ebbene sì, ne avute più di una e tre delle quattro mogli erano lì a salutarlo. Alla politica nessun accenno nelle parole dell’officiante, quasi uno sberleffo involontario agli  alti papaveri in prima e seconda fila e quasi un omissis a proposito del record del caro estinto: 3.339 giorni spalmati su quattro governi, contro i 2.678 su sette di un altro leggendario Belzebù: Giulio Andreotti. Quanti spunti avranno storici e sociologi da qui al 2050, come minimo. Ma in che modo chiudere l’ultimo capitolo di vita terrena di B.? Ciascuno ha illustrato i suoi ricordi, il mio è indiretto e ha per protagonista un trio: Silvio, Giovanni e Fedele. E’ il dopoguerra, siamo nell’oratorio del patronato di Sant’Antonio, luogo di ritrovo obbligatorio per gli abitanti dell’Isola, luogo di svago e di aggregazione nella Milano semidistrutta dai bombardamenti. Silvio è Berlusconi, Fedele è Confalonieri, la sua ombra già nell’adolescenza, Giovanni è  Borghi, allora giovanotto pieno di vita che per arrotondare la paga di operaio, anzi di garzone nel negozio del padre Guido elettricista, va a suonare il pianoforte nei cinematografi accompagnando con i motivi dell’epoca la proiezione di film rigorosamente muti e in bianco e nero. Sapeva suonare il piano anche sua mamma Maria e lo suonava sua sorella Gina, madre di Fedele, mentre Confalonieri padre si chiamava Ernani come il personaggio dell’opera di Verdi. In quell’oratorio-patronato il trio si esibisce i pomeriggi del sabato e della domenica e in una ipotetica classifica Silvio e Giovanni si eguagliano per fantasia e vivacità, mentre Fedele è riservato, riflessivo. I due ragazzi cantano, il futuro re dei frigoriferi con le manone da boscaiolo picchia i tasti a orecchio e con rara efficacia. Silvio è il più indisciplinato, non solo all’oratorio, palcoscenico iniziale delle sue imprese canore, anche nelle balere dove più tardi lo invitano come voce e come chitarrista. “A un certo punto lasciava la pedana e scendeva a ballare”, mi raccontò Confalonieri. “Diceva che doveva fare pubbliche relazioni. E’ sempre stato un tipo così. Imprevedibile e geniale come lo zio Giovanni  per il quale ha nutrito ammirazione sincera”. Egli stesso nella prefazione del mio “Mister Ignis”, la biografia di Borghi, scrive: “Col suo successo industriale c’entra sicuramente l’aria dell’Isola capace di stimolare con in chi l’ha respirata da giovane l’estro, la fantasia, l’arte d’inventarsi qualcosa di nuovo”. Tutte queste immagini sono la quintessenza dell’ostinata e ostentata milanesità di Berlusconi. A Milano è diventato ricco, a Milano è sceso in campo, a Miano è stato processato, a Milano si è sempre curato: non poteva tradire il San Raffaele costruito dal suo amico don Verzé, prete controcorrente. E a Milano B. ha messo in scena, da morto, il suo ultimo spettacolo. Amen.

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