Controlli, non trappole
- Gianni Spartà
- 16/10/2023
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Giustizia
Nessuno si scandalizza più se l’imputato di un omicidio atroce avvenuto trent’anni prima passa da una condanna all’ergastolo a una assoluzione con formula piena dopo tre anni e mezzo di carcere preventivo. Nessuno si allarma se un sindaco calabrese cui erano stati inflitti tredici anni per aver interpretato con esuberanza le leggi sull’accoglienza di migranti (associazione a delinquere), se la cava in secondo grado con un anno e sei mesi: ha sbagliato qualcosa, non era un criminale. Lo scandalo deflagra quando c’è di mezzo la politica con i suoi intraprendenti sacerdoti. E riparte la guerra tra due poteri, esecutivo e giudiziario, che Montesquieu immaginava separati e indipendenti. Da quanto dura questa guerra? Da trent’anni come quella che studiavamo a scuola, una serie di conflitti tra nazioni europee (1618 -1648). Si arriva a pretendere le dimissioni di un magistrato per provvedimenti sbagliati a prescindere. Ora la giudice di Catania al centro dell’ultimo caso pare avere il destino nel cognome: si chiama Apostolico che dà l’idea di una appartenenza, dell’essere seguace di qualcuno o qualcosa per ragione di fede. La suddetta avrebbe fatto prevalere questa condizione sul suo convincimento. Tra l’altro sottoscritto per le stesse ragioni da un altro collega. Quali ragioni? Ritenere illegittima la lunga detenzione di persone che, messo piede in Italia, si proclamano richiedenti asilo. Ci pare di intuire che finirà in niente o quasi. Il baccano mediatico c’è stato, a posto così. Ma l’occasione è propizia per chiedersi che cos’è un giudice, come arriva a esercitare un ruolo tanto delicato. Allo stesso tempo è utile dare un’occhiata al grafico del consenso per la magistratura. Rispetto alle smodate euforie dei di Mani Pulite, è ridimensionato agli occhi della pubblica opinione. Cioè del popolo in nome del quale la giustizia viene amministrata. Allora diciamolo: viene amministrata male e da troppo tempo. Tutti i governi che hanno tentato di porvi rimedio sono finiti sulla graticola e mi è capitato di sentir pronunciare questo verdetto: se devo maledire un nemico, non gli auguro un accidente, ma un processo. Dal quale si esce distrutti, per i tempi biblici delle decisioni, per i quattrini da spendere in perizie e avvocati, per il danno intimo irreparabile che provoca un arresto, puntualmente reso pubblico, quando poi, con calma, si giunge all’assoluzione. Non alla guarigione da cicatrici ferite che restano. La macchina della giustizia storicamente ingolfata è colpa ascrivibile al sistema. L’Italia eccelle per le censure che le infligge la corte europea di giustizia, fondi d’ investimento disertano il nostro Paese temendo l’inefficienza dei suoi tribunali. Altra cosa dal criticare le sentenze è il processo reiterato ai magistrati. Sono incapaci, impreparati, imprudenti nel rapporto con la società? Diciamo prima di tutto che sono creature emotive, al pari di ogni essere umano. Pensarli isolati e irraggiungibili come i guardiani di un faro è utopia. Pretenderli imparziali nel processo è lecito, monaci di clausura nella vita è cialtroneria. Esistono, quindi sbagliano. Hanno amicizie, famiglie, anche simpatie sociali, quindi sono vulnerabili. Il diritto lo conoscono, hanno superato una selezione. La loro psicologia, il loro comportamento, l’esercizio delle loro libere opinioni siano tenuti sotto osservazione, come avviene per i militari. Controlli si, trappole mediatiche no. Nel rispetto di quel potere indipendente che ci piacerebbe considerare servizio.