Manfredini, Macchi, Paolo VI
- Gianni Spartà
- 13/11/2023
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Il potere silenzioso
Nel mese dedicato alla memoria, i defunti, i caduti in guerra, la Chiesa ambrosiana non lascia passare inosservati gli anniversari di due suoi principi: cento anni dalla nascita di don Pasquale Macchi, quaranta dalla morte di don Enrico Manfredini. Entrambi sono legati alla storia di Varese e li accomuna la libera interpretazione di un concetto caro alla sapienza greca: non si può conoscere la natura e il carattere di un uomo fino a che non lo si vede gestire un potere. Vale anche per due parroci ai quali è capitato in sorte di occupare un trono senza lasciarsene elettrizzare. Diventati arcivescovi, uno a Loreto, l’altro a Bologna, Macchi e Manfredini obbedirono al Vaticano (specialmente il primo che se ne sarebbe rimasto volntieri al Sacro Monte) facendo bene le cose che i fedeli si aspettavano dal loro agire. Ma un’altra circostanza rende parallele le storie di don Pasquale e don Enrico ed è che entrambi furono nel cuore di un papa la cui sofferta grandezza spirituale è stata riscoperta dopo la recente elevazione a santo: Paolo VI. Macchi ne fu per quindici anni il devoto e discreto segretario particolare in un’epoca di forti tensioni sociali: la contestazione studentesca e operaia, il referendum sul divorzio, il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, il riavvicinamento di Roma alla chiesa anglicana dopo quattro secoli di piccato distinguo. E sempre su richiesta di quel pontefice, Manfredini ebbe il privilegio di partecipare da semplice sacerdote ai lavori del Concilio vaticano secondo. Segno di stima per un presbitero che all’interno dell’università Cattolica di Milano faceva argine intellettuale al pensiero unico sessantottino affrontando fiere e autorevoli contrarietà. Egli era stato compagno di messa di don Giussani e proprio a Varese, dove fu prevosto e dove gli è intitolata una scuola, si poté notare la sua sostanziale convergenza con il movimento di Comunione e Liberazione. Di Macchi ha tracciato un bel ritratto giorni fa in basilica l’arcivescovo di Milano Mario Delpini. Gli ha riconosciuto uno “stile regale” nel suo servizio alla Chiesa. L’ottimo film di Bellocchio sui giorni tragici del sequestro Moro ci ha mostrato un don Pasquale arrendevole e zelante attorno a Paolo VI in pena per l’amico prigioniero delle Br. La verità è che in quelle ore Macchi fu il regista-ombra di una coraggiosa trattativa condotta dal Vaticano e del reperimento di denaro, tanto denaro, nel caso i carcerieri avessero preteso un riscatto. Solo che dei dettagli di tutto ciò non sapremo mai nulla. Il segreti della condanna a morte dello statista, quando nel palazzo apostolico erano certi del suo rilascio, se li è portati nella tomba don Pasquale cui Varese è riconoscente per l’immane restauro del Sacro Monte che con tanta velocità e precisione poteva riuscire solo a lui. Eccolo il volto silenzioso del potere, l’esatto contrario di quel che si è abituati a vedere: linguaggio chiassoso, ostentazione di superiorità anche quando “il gradino su cui si è saliti è solo la predella di una modesta scrivania” (Gianfranco Ravasi, cardinale). Si ricorda una predica strepitosa di Manfredini una domenica in San Vittore: “Non voglio la vostra castità, vi chiedo la carità”, disse ai fedeli. Molti dei quali, come folgorati, cominciarono a prendersi cura di poveri, di detenuti, di donne a un bivio esistenziale, degli ultimi ricoverati in manicomio. Erano esponenti della migliore borghesia della città che accettavano di rimboccarsi le maniche e sporcarsi le mani. Ma il capolavoro pastorale di don Enrico è la trasformazione del ristoratore Vittorio Pastori, passato alla storia come il boss della Provvidenza: colui che dava da mangiare ai ricchi, e ci guadagnava, dopo un viaggio in Uganda lasciò tutto per andare a sfamare i denutriti. Ed ecco di nuovo il potere di coltivare talenti cristiani e in qualche caso di arrendersi proprio per non farne cattivo uso. Negli anni ’70 Manfredìni intuì che la vigna del Signore sarebbe presto rimasta senza operai. Con tutte le cautele del caso, provò a sondare gli umori del preti di Piacenza, dov’era vescovo, sulla necessità di nominare diaconi laici per i bisogni delle parrocchie. Lo fulminarono con un secco no: bastiamo noi sacerdoti. Quarant’anni dopo si può dire: il profeta aveva ragione, trorto i supponenti che non lo ascoltarono. (Nella foto risalente agli anni 70 Manfredini con Andreotti e Vittorione)