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Bobo amarcord

  • Gianni Spartà
  • 25/11/2023
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Simbolo di un’eèoca

Quando se ne andò Roberto Maroni, un anno fa, 22 novembre, il collega Ezio Motterle che Bobo aveva ribattezzato affettuosamente “Castorone”, sibilò una delle sue acuminate e ciniche analisi: “E’ finita l’epoca di Varese capitale della politica italiana”. Aveva ragione. Maroni è stato il simbolo di un periodo difficilmente ripetibile nel quale una comunità quasi svizzera sperimentò l’impatto con un potere diverso da quello dei soldi: industria, commercio, finanza, affari. Il potere dei grand commis dello Stato che giravano con le scorte nella luce azzurra dei lampeggianti. A volte con le sirene accese. Cosa che a Napoli metteva allegria, osservò una volta Giovanni Spadolini, al Nord dava un fastidio.  Tentiamo un riassunto cominciando dal vero regista: Umberto Bossi inventore della Lega. Come per magia, la gente di qui si ritrovò catapultata, di riflesso, nel Palazzo. E diventando ministro dell’Interno e vicepremier nel maggio del 1994, Maroni fu quello che si tolse lo sfizio di conquistare una poltrona sempre occupata da democristiani nel dopoguerra. Penso a una foto che gli scattò Giorgio Lotti: il “ragazzo del Viminale” in maniche di camicia con i piedi sulla scrivania appartenuta ad Alcide De Gasperi quando l’edificio  ospitava la presidenza del Consiglio. Ci piace considerarla  l’immagine simbolo dell’uomo che non amava prendersi va sul serio pur adempiendo seriamente ai compiti del responsabile dell’ordine pubblico. Il capo di duecento prefetti e di centomila poliziotti. A un certo punto, caduto in disgrazia Berlusconi, sembrava che la storia dovesse essere declinata come fosse un amarcord. Invece Maroni nel 2008 tornò al Viminale e lo lasciò nel 2013 per trasferirsi al  trentaquattresimo piano di Palazzo Lombardia. Ci restò cinque anni per poi consegnare il testimone ad Attilio Fontana che di Varese era stato sindaco. Varese nell’olimpo delle istituzioni solo in quota Lega? Fino al 2011 quando dal cilindro di Giorgio Napolitano spuntò il tecnico Mario Monti, nato nella nursery dell’ex clinica Rovera, uomo di studi, appassionato di biciclette da corsa. Chi lo definisce “varesino per caso” non sa della  sua adolescenza trascorsa nel rione di Sant’Ambrogio. Monti incarnava la buona borghesia milanese che, durante i bombardamenti, s’installò nelle ville ottocentesche di Velate e dintorni facendovi crescere figli e nipoti. Difficile scompaginare la compostezza accademica di Monti. Facile strappargli un sorriso parlando del campionissimo Binda. Ma nessuno se lo sarebbe immaginato urlante con le braccia alzate sugli spalti dell’ippodromo delle Bettole, accanto all’amico Alfredo Ambrosetti, allorché Alessandro Ballan vinse i mondiali di ciclismo. Correva l’anno 2008, 28 settembre.

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