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Binario 2024

  • Gianni Spartà
  • 10/01/2024
  • 0

La Shoah a pezzi

Guardo le vecchie carrozze ferme sul Binario 21, monumento milanese alle deportazioni di ebrei verso i campi di sterminio, e la ragione traballa: in ottant’anni la “Dissipatio humani generis” del romanzo di Guido Morselli continua in un crescendo di crudeltà ottusa. Mi trovo nel ventre del peggio del peggio accaduto in Europa durante il ventesimo secolo e improvvisamente gli echi della memoria si smorzano sovrastati dai brividi dell’attualità. E’ una sensazione terribile intuire che gli orrori registrati in Ucraina e in Medio Oriente, per non parlare dei massacri ignorati in Africa, possano correre il rischio di gareggiare in nefandezza con un Olocausto. E’ disorientante pensare che una aberrazione epocale possa essere oscurata da eventi sopravvenuti. Eppure non c’è altro luogo, più di questo bunker sotto la stazione Centrale di Milano, in cui tutto si somma e tutto si elide. Nel 2024 del terzo millennio la parola genocidio vaga ancora come un fantasma assetato di odio. Della “neve” sprigionata dai camini di Auschwitz resta il rimorso collettivo, salvo casi di paranoia; della pulizia etnica inferta oggi, anche se a pezzi, sono prove i civili straziati civili a Kiev, a Gaza, in Israele. E’ appena stata uccisa “per errore” una piccola palestinese a un posto di blocco in Cisgiordania, sono morti tre reporter, Save the Children annuncia che in tre mesi di guerra mille ragazzini hanno subito amputazioni, dieci al giorno hanno perso le gambe. Operati senza anestesia. C’è bisogno di medici, uno sta partendo per la Striscia da Varese: è il chirurgo Alberto Reggiori. Forse c’entra con questa suggestione di un transfert psicologico, un’immagine all’ingresso del museo di Milano. Essa ritrae un bambino ucraino che accarezza tra le braccia il suo micio vicino a un missile inesploso conficcato in un prato. Sono schegge di una mostra fotografica con un messaggio preciso al visitatore: quello che vedete qui dentro, nello scalo ferroviario della vergogna, non è una storia finita. Vi mostriamo l’aggiornamento. Non è vero, ovvio, che i cattivi si sono istinti. E’ vero che i buoni sono fuori gioco da anni, impotenti, zittiti, esclusi. Ed è vera la morte del compromesso, come può considerarsi il cessate il fuoco negato. Compromesso: il vocabolo è stato interpretato spesso in senso dispregiativo, ma il suo contrario, la spietata perseveranza, è il seme del fanatismo. Ci eravamo illusi che la guerra tra Russia e Ucraina fosse il colpo più basso incassato da contemporanei assuefatti alla democrazia. La speranza era che, col soccorso di quasi tutte le nazioni europee e dell’America, la crisi in qualche modo sarebbe stata superata. Leggendo ora che Putin, avvantaggiato dal conflitto di Gaza, ha ripreso la sua opera demolitrice utilizzando armi ricevute dalla Corea e dall’Iran, piani separati che sembravano si mescolano. Il pericolo di un conflitto esteso non è escluso, primi tra tutti, dagli Stati Uniti diventati restii ad aiutare Kiev, da una parte, preoccupati dall’altra per il consolidamento di un blocco ostile all’Occidente sotto le mura del Cremlino.  Chi ha ragione, chi ha torto, come si spiega su un campo sempre più largo il ritorno alle strategie dell’assedio, della vendetta, dell’annientamento? Manca un centro di gravità, un minimo comun denominatore, qualcosa su cui tutti, ma proprio tutti, possano convergere. In Ucraina sanno di essere condannati alla sopravvivenza fino all’ultima goccia di sangue. Ce lo racconta il giovane badante Dima che ha passato il Natale con la mamma riuscita a raggiungerlo in Italia fuggendo dall’inferno nella sua patria. La sconfitta o la resa darebbe l’estro al peggio: già ora, quando conquistano un villaggio, le soldataglie di Putin piombano nelle case del nemico stuprando mamme, infierendo su vecchi e bambini, portando via ciò che trovano. Non dimentichiamo che anche i russi denunciano mezzo milione di morti. In Medio Oriente l’azzeramento probabile di Hamas non dà sollievo. Gli scampati rispolvereranno il verbo integralista che armerà terroristi e kamikaze pronti a vendicarsi col tritolo nelle città europee e americane. E’matematico, lo abbiamo già sperimentato in Francia, in Belgio e l’Italia non è fuori dalla lista dei luoghi da colpire. E’un inizio d’anno pessimo e vale una riflessione dettata in un libro di Hannah Arendt, filosofa tedesca: i tiranni di ogni osservano la guerra dall’alto, ragionando per principi universali, senza considerare che c’è chi muore davvero. La dissipazione del genere umano è questa.  

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