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Leone e la leonessa

  • Gianni Spartà
  • 25/04/2024
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Il processo alla Cederna

Una giornalista querelata per un suo libro, un pubblico ministero che ne reclama la condanna, un tribunale che deve decidere se c’è stata diffamazione a mezzo stampa o no. Tutto normale, tranne per l’imputata, ovviamente.  Senonché la giornalista si chiama Camilla Cederna, firma di punta dell’Espresso, il pubblico accusatore è il capo della Procura in persona, quando di solito per processi del genere in aula si mandano i sostituti, il libro riguarda un presidente della Repubblica, Giovanni Leone. Che anche per quel volume stravenduto dall’editore Feltrinelli s’è rassegnato a lasciare il Quirinale prima del tempo. Il fatto è unico e tale pare destinato a restare, con l’aria che tira. Se dai le dimissioni, c’è caso che le accettino, scriveva Enzo Biagi. E allora di normale non c’è nulla in questo romanzo giudiziario e politico entrato con un segno indelebile nella storia repubblicana. Tutto è tremendamente straordinario, degno di memoria, anche di raffronti imbarazzanti con l’oggi. A cominciare dal fatto che quel uomo piccolo e canuto, insigne giurista, allegro e ingenuo, una bella moglie, donna Vittoria, napoletano verace sorpreso più volte a brandire medio e indice in segno di scongiuro, quell’uomo, dicevamo, è stato abbondantemente riabilitato. Galantuomo, non malfattore. Figlio della sua epoca, non padre di intrallazzi istituzionali. Eccentrico, “con quel naso da Pulcinella il naso da Pulcinella e le sue gaffes durante i viaggi-carovana” (Cederna), non traditore della patria.  Sia pace all’anima sua.  La retromarcia postuma difesa postuma dell’ex reietto, la più rumorosa, è di Walter Veltroni, fondatore del partito democratico, erede del Pci che al massacro politico di Leone diede la spinta più energica con la minaccia di un impeachment. Era il 1978, democristiani e comunisti davano vita sofferta a un governo di solidarietà nazionale, infuriava lo scandalo Lockheed: tangenti pagate dagli americani per vendere a stati europei, tra cui l’Italia, i suoi Hercules 130, aerei militari. Leone c’era finito nel mezzo e il suo partito, la Dc, sconvolto dal rapimento e l’uccisione di Aldo Moro non ebbe forza di proteggerlo. Fiutando la mala parata, il presidente se ne andò. Il primo a scovarlo nel suo rifugio, una villa sui colli laziali denominata “Le Rughe” fu Piero Chiara che in libro pubblicato nel 1985 ricostruì un caso mai chiarito giunse a questa conclusione: la verità è quella del momento, la puoi ribaltare, restituire ripulita da bugie ed eccessi, non la puoi cancellare nell’immaginario collettivo.  Il processo a Camilla Cederna si svolse a Varese per una coincidenza singolare, ma non troppo. Singolare perché in questa città il libro era stato stampato e qui per legge andava celebrato il dibattimento. Non troppo perché, ricca di rotative attrezzate, Varese era in quegli anni il domicilio quasi obbligato, forse il porto sicuro e meno costoso, dei più importanti editori nazionali, tra questi Feltrinelli. La celebre scrittrice non giocava in casa. Nelle sue inchieste degli anni ’70 aveva dedicato a questo territorio il seguente, soave ritrattino: “Se per fascismo s’intende anti-cultura, non stupisce che, per risorgere, esso abbia trovato un buon terreno anche a Varese, città nota per la mentalità bottegaia dei suoi abi­tanti, e la cui civiltà si dice sia soltanto quella del “baslot”, la cio­tola di legno dove i negozianti usano riporre il denaro”. La magistratura? Troppo indulgente con i “gorilla neri”. Non poteva immaginare Camilla che un giorno sarebbe stata giudicata proprio nella città degli “extra-sgrammaticati di destra” (sempre una sua pennellata). Tanto meno poteva figurarsi che di lei si sarebbe occupato il procuratore Giu­seppe Cioffì che al quale i sinistri davano dell’insabbiatore di processi ai destri. Coreografie dell’epoca, verità del momento, parafrasando Chiara. E invece eccoli faccia a faccia i due, lei imputata di diffamazione a mezzo stampa per il suo libro Giovanni Leone, la carriera di un pre­sidente, lui pubblico ministero, uomo mite e non ricattabile, indubbiamente suggestionato dal clima non ordinario per un palazzo di giustizia di provincia. Cederna fu condannata (multa di un milione) dal tribunale presieduto da Giovanni Pierantozzi (“volto abbron­zato, buona racchetta”, annotò in un suo diario la giornalista) e composto dai giudici Ottavio D’Agostino e Rodolfo Materia (“poco visibili perché affogati in bassi scranni ai lati del seggiolone del presidente”). Fu respinta dai giudici la richiesta dell’accusa di distruzione del libro: le pagine diffamatorie non giustificavano il sacrificio di tutta l’opera. Il processo era seguito dai giornali nazionali con i migliori inviati. A un’udienza spuntò tra il pubblico Dario Fo.  Ho rintracciato e trascritto passi di un’intervista a Camilla Cederna: stava seduta tra i suoi gatti in una casa al centro di Milano, non erano ancora chiuse le cause di risarcimento "gemmate" dalla condanna. Le chiesi di tornare con la mente a Varese, a quella battaglia persa in una guerra con un effetto collaterale: una vittoria del “quarto potere” per le dimissioni di un capo dello Stato. Chissà se oggi, checché se ne dica dello strapotere dei social, uno scenario del genere sarebbe riproducibile! “Non fu un clima ideale per me”, mi disse lei. “Dagli avvocati dell’altra parte fui rimproverata di portare i jeans “alla sua età. Ebbi più volte l’impressione che stessero giudicando una persona ritenuta inadatta a una battaglia civile, cioè una donna snob e pettegola, come mi apostrofò qualcuno. Giù risate quando parlai degli alberi centenari abbattuti per quella selvaggia rapina di suoli che fu l’assurdo ghetto residenziale costruito a Baia Domizia”.  Perché scrisse il libro su Leone, come nacque l’idea? “Il personaggio mi aveva sempre interessato con quel suo inguaribile accento, il suo cantare “O sole mio” davanti ai potenti della Terra. Un giorno presi una cartellina rosa, ci misi dentro delle fotografie e cominciai a pensare: “Questo è l’uomo di cui mi voglio occupare.” La prima fotografia fu scattata quando non poté non andare all’ospedale di Napoli  a fare gli auguri ai malati di colera. Era vestito di bianco, berretto e guanti, ma a un certo punto dovette fermarsi al letto di un ricoverato e mentre gli dava mano gli mise in testa l’altra e gli fece una carezza che finì nel tipico scongiuro, le corna. Due anni dopo andò a Pisa e la sua macchina dovette fermarsi davanti a operai e studenti extraparlamentari che lo contestavano. Forse uno gridò: “Morte a Leone”. E lui venne ripreso in una foto che ebbe una grande diffusione: eccolo mentre alza la mano destra facendo le corna e fa lo stesso gesto con la sinistra all’altezza del cavallo dei pantaloni. I giornali si scatenarono, Pasolini ne scrisse scandalizzato, il capo ufficio stampa del Quirinale, cele­bre gaffeur, spiegò che era stata una manifestazione di umorismo spontaneo. Ecco le due fotografie. Le conservo gelosamente”. Quando conobbe  Giovanni Leone? “L’avevo incontrato facendo interviste ai grandi democristiani. Lui era presidente del Consiglio e mi fissò un appunta­mento. Parlai a lungo con la moglie che mi raccontò come si era decisa a sposarlo. Bella com’era da ragazza, rideva di quel profes­sore pedante, ma poi tali erano state le lettere d’amore ricevute, che aveva optato per il grande passo. Ebbene, le dissi che tutto questo era interessante ma ero venuta per intervistare lui e lei andò a chiamarlo. Si sentì un gran rumore di sciacquone e apparve lui, gli occhiali sul naso, un barboncino tra i piedi. Hic sunt leones, esordì. Mi parlò di calcio, per cui andava pazzo, del mestiere di avvocato. Raccontò come il presidente Kennedy, sedendo a cena accanto a Vittoria Leone, le aveva confidato: “Adesso capisco il successo di suo marito.” Infine trotterellò via sorridendo: “Lascio mia moglie ad bestias”, disse e mi indicò. Mi spiegò che quello era il linguaggio del circo pagano. Lo dovevo rivedere anni dopo in tv al funerale delle vittime della strage di piazza della Loggia, a Brescia. Lui e Rumor non poterono leggere i loro discorsi e la televisione sospese l’audio per coprire i fischi della folla”. Si sente responsabile di aver “rovinato” la carriera di un presidente? “Sono certa d’aver contribuito alla caduta di Leone. Il libro fece clamore e oggi c’è chi pagherebbe qualsiasi prezzo per averne una copia. C’è chi l’ha prestato, chi l’ha perso, chi l’ha dovuto rendere e molta gente lo cerca invano sulle bancarelle. La polemica scatenata contro di me dal clan Leone non ha amplifi­cato granché il successo editoriale. Il libro si è venduto da solo e parecchio.” Quanto le è costata in inden­nizzi ai diffamati la condanna di Varese? “Mi è costata”  

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