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Laureati malpagati

  • Gianni Spartà
  • 21/06/2024
  • 0

Fuga all’estero

Autonomia differenziata è un’espressione suadente. Significa che i territori regionali chiedono mano libera in certe materie rispetto a leggi dello Stato uguali per tutti. Per lungo tempo l’attenzione si è concentrata, ad esempio, su stipendi pubblici e privati: si diceva che dovevano essi considerare la “differenza”, appunto, tra chi si guadagna da vivere a Milano o a Torino e chi a Benevento o a Reggio Calabria. Via, non c’è bisogno dell’algoritmo per sapere che nell’Italia a due facce a parità di benefici, i costi sono di gran lunga superiori al Nord, specialmente nelle zone di confine. La busta-paga pertanto doveva contemplare compensazioni. Non è cambiato nulla dagli anni ’80 a oggi: mai il ragionamento pragmatico ha superato le barriere ideologiche. Ora ci pensano i giovani a far tornare i conti. Quando leggono nel contratto di assunzione che l’ultima cifra in basso a destra varia al netto tra i 1250 e i 1400 euro mensili, congelano la proposta e appena possono, quando possono, se ne vanno all’estero. C’è chi dice no subito, chi lo fa dopo qualche mese, massimo un anno, licenziandosi con una buona dose di audacia. Uno report di Almalaurea e uno di Intesa San Paolo lanciano l’allarme: sono soprattutto i neo- laureati a trasferirsi in Spagna, in Germania, nel Regno Unito, non solo per retribuzioni superiori almeno di un terzo, anche per maggiori opportunità di carriera, per la possibilità di specializzazioni avanzate, per garanzie sul giudizio di merito e infine per un fattore che le nuove generazioni considerano fondamentale: la flessibilità lavorativa. Che significa migliore qualità della vita. Ce n’è una sola e francamente se la posta in palio sono milleduecento euro al mese per sette- nove ore di lavoro al giorno, figli parcheggiati tra scuola e nonni, il rischio di rinunciare al posto si può accettare. Nell’ultimo anno lo ha accettato il sessanta per cento di neolaureati triennali, il sessantasei di magistrali. La tendenza è segnalata in aumento e si prevede un esodo da passa-parola in mancanza di correttivi alla portata di un governo che come bussola ha la nazione. Intanto l’analisi è questa: i giovani dottori italiani sperimentano un ingresso meno arrendevole nel mondo del lavoro, mostrano di avere una visione internazionale del mercato, lamentano di uscire dagli atenei senza adeguata conoscenza, ad esempio, delle opportunità di lavoro e di formazione offerte nei  distretti produttivi del Paese. Forse è anche colpa loro, dei giovani dottori, vittime di un paradosso: con in mano uno smartphone vieni a sapere tutto di quello che accade nei paradisi della nuove tecnologie ma ti sfugge la realtà nella quale vivi.  Non sai che là fuori, oltre l’uscio di casa, aziende di valore cercano disperatamente personale. Probabile lacuna di marketing territopriale. Ed ecco che rivendicare autonomie differenziate quando il Paese, tutto intero, non è in grado di difendere il suo capitale umano è un controsenso. I “laureati a perdere” appannano il nostro profilo. Non è vero che all’estero ci sono lavori migliori, è scandaloso che i millenians, cioè i nati nel primo ventennio del ventunesimo secolo, siano pagati male. Mei report che stanno uscendo da banche e istituti di ricerca si legge che i giovani pretendono dignità, rifiutano ricatti e demansionamenti, s’aggrappano ai valori dell’esistenza avendo qualche modello: anni fa il ministro della Difesa finlandese si prese un congedo di paternità di tre mesi per stare con la famiglia, in Scozia la premier annunciò le dimissioni con un laconico: “Viene il tempo di fare altro”. Sembrano segni di un cambio di prospettiva, forse di civiltà. Le nuove generazioni non sono choosy, cioè schizzinose, come diceva anni fa la Fornero. Con determinazione prendono in mano la loro vita. 

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