Un secolo, una vita
- Gianni Spartà
- 03/07/2024
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Ferruccio Zuccaro
Gli dissi dieci anni fa, quando ne compiva novanta: Ferruccio, ci vediamo nel 2024, allora saranno cento, cifra tonda. E lui scherzando ma neanche troppo: “Certamente, segno l’appuntamento sull’agenda per la prossima intervista”. Eccoci qui, dunque, al cospetto di un uomo speciale che può disporre del suo futuro perché ha la fiducia nel sangue e l’empatia scolpita su un viso piccolo, sempre uguale, proporzionato alla corporatura minuta che dev’essere la sua forza. Intanto il ritratto: Ferruccio Zuccaro, classe 1924, gran varesino, avvocato di idee liberali, giornalista in gioventù, fabbricatore di cultura, frequentatore di cenacoli letterari, raffinato assaggiatore di quei piaceri che solo ad alcuni è dato di cogliere contemplando la bellezza nell’arte, l’intelligenza nelle creature. Chiedergli come va è superfluo e poi il figlio di un pugliese sa che un pizzico di scaramanzia non guasta. Mi incuriosisce come trascorre il tempo un personaggio vissuto a cavallo di due secoli e di epoche che sono cambiate senza cambiarlo. Risponde serio: “Lavoro ancora, scrivo qualche memoria, sono qui in studio con Giovanna, mia figlia, Cecilia, mia nipote, altri avvocati tra cui Davide che momentaneamente fa il sindaco di Varese”. Sulla singolare circostanza nessuna enfasi: questione di stile.
A cent’anni è più facile parlare dell’infanzia, dell’adolescenza. Qual è il primo ricordo?
“Un maestoso albero di cachi in un giardino che stavano spianando per costruire il tribunale. Io abitavo in lì, alla fine di via San Martino. Quell’immagine ce l’ho sempre nella testa, come un vecchio film”.
Zuccaro è un cognome del Sud…
“Sì, di Lecce. Papà faceva il capo-contabile alla conciaria di Valle Olona. Mia mamma, varesina, era la sarta della migliore nobiltà del tempo, i Litta, i Ponti. Aveva la bottega in via San Martino. Poi ci trasferimmo a Biumo dove, ancora bambino, mi capitava di giocare in cortile con Franca Rame. I suoi avevano un carro col quale nel fine settimana andavano a fare spettacoli viaggianti in provincia”.
Studi classici, laurea in Legge alla Statale, carriera forense. Tutto liscio?
“Se così si può dire di quegli anni. Dovete sapere che rischiai di essere deportato chi sa dove. Vivevo nascosto nella cantina di casa per non andare in guerra, destino di molti qui a Varese. La milizia mi sorprese in giro e mi rinchiuse nella caserma Garibaldi. Avevo una grande paura di finire caricato su qualche treno, non dormivo. Senonché una mattina venne a prendermi in cella una guardia mentre nel cortile si svolgeva la cerimonia dell’alzabandiera. Mi disse di uscire dal portone e di attraversare la strada. Lì c’era mio padre ad aspettarmi. Ero libero”.
Scampato pericolo
“La mia famiglia aveva già pagato un prezzo alto con mio fratello Renato sopravvissuto alla Ritirata di Russia. In casa ricordavano il giorno in cui riapparve accompagnato da monsignor Tarcisio Pigionatti. Io mi salvai grazie alle amicizie di mio padre che era compaesano dell’allora procuratore del re, un certo Maglietta, e del presidente del tribunale Giuseppe Robertazzi. Finità la guerra egli lasciò la magistratura e aprì uno studio legale nel quale andai a fare pratica di avvocato. Controvoglia…”
Come controvoglia?
“Io volevo fare il giornalista senonché fui vittima di uno scherzo da preti. Se volete ve lo racconto…”
Perché no?
“Un regolamento di conti tra prelati mi costò il posto di redattore al giornale L’Osservatore, erede di un’altra testata cattolica l’Italia. Ci era entrato per meriti che mi avevano riconosciuto negli anni in cui avevo fatto il corrispondente da Varese. Senonché ne divenne direttore don Ernesto Pisoni, per trame curiali, ed egli come prima cosa chiese la mia testa. La comunicazione mi venne recapitata in redazione da monsignor Bicchierai, un’eminenza grigia della diocesi. Licenziato in tronco”.
Per aver fatto che cosa?
“Per aver criticato sul “Mattocco”, giornale satirico che si pubblicava a Varese, un articolo comparso su una rivista culturale diretta da Pisoni prima di trasferirsi all’Osservatore. L’aveva scritto una certa Italia Davy celebrando corpi nudi che si muovevano nell’acqua. Scandalo per una testata diretta da un prete. Un altro prete, don Gildo, mi invitò, a nome di personaggi della Curia milanese, a vendicare la morale cattolica vilipesa. Ciò che io feci con l’entusiasmo dei vent’anni non sapendo d’essere strumento di una vendetta ordita nelle sacrestie per chissà quale ragione”.
Beh, ha fatto l’avvocato alla grande. Di quale processo va fiero?
“Vi ricordate l’uomo che uccise la moglie da cui si stava separando in tribunale? Omicidio durante un’udienza, ne parlarono giornali e tv. L’uomo fu condannato ma la parte civile che rappresentavo non poteva non essere risarcita. Facemmo causa allo Stato perché l’omicida era entrato nel palazzo di giustizia con una pistola in tasca e i controlli al metal detector non avevano funzionato. La sentenza a noi favorevole è entrata nella giurisprudenza di numerosi fori per casi analoghi”.
All’uomo di cultura possiamo ricordare che l’anno della sua nascita, 13 giugno del 1924, Arturo Toscanini si esibiva con la sua orchestra al Teatro Sociale di Varese….
“…che fu raso al suolo sciaguratamente nel 1953, capisco il senso della domanda. Il teatro non era solo un palcoscenico ma un collante che teneva insieme il meglio di Varese. Cominciava una nuova epoca, le famiglie importanti si dividevano e soprattutto iniziava lo scempio urbanistico degli anni del boom economico. Sono parte anagrafica di quella storia, non mi ergo a giudice e non condanno nessuno. Dico che ci fu miopia, stupidità, più che speculazione. I corrotti erano meno di adesso. Quanto al teatro demolito, Varese può farsi perdonare e lo farà”.
Come definisce la Massoneria?
“Una raccolta di intelligenze libero al servizio della società non sarà mai cosa inutile. Il riserbo deriva da esigenze storiche: in Italia la politica, e non solo, ha sempre osteggiato i massoni. Non è così altrove, vedi gli Stati Uniti. Chi può temere portatori sani di ideali come la fratellanza e la libertà? Un cardinale ha detto: come cattolici avremmo tanto bisogni della massoneria. Potrebbe insegnarsi qualcosa”.
Chiuda gli occhi e immagini Varese tra 50 anni?
“La immagino accogliente, aperta, in sintonia con ciò che la circonda, Milano, la Svizzera, ma soprattutto coerente con la sua storia. Checché se ne dica Varese ha avuto grande vivacità culturale e politica. La immagino città universitaria, se mi è concesso parlare di una battaglia civica alla quale credo di aver dato un contributo. Mi premiarono con la Rosa Comacina come uno dei padri fondatori dell’Università dell’Insubria. Non fu facile difendere la nascita di un ateneo autonomo, seppur gemellato con Como. Il territorio ha colmato con gli studi, la ricerca, la presenza di tanti giovani, vuoti lasciati da primati perduti. Senza questa vocazione sopravvenuta fatico a immaginare la Varese che vorrei fosse tramandata ai posteri”
Ferruccio Zuccaro, che cos’è la vecchiaia?
“Una cosa che non esiste. Fidatevi”.