Ciò che resta di Guttuso
- Gianni Spartà
- 27/08/2024
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Servili a Varese
Come non riflettere sul fatto che nulla resterebbe a Varese di Renato Guttuso e della sua trentennale presenza tra i castagni di Velate, se non ci fosse la “Fuga in Egitto” alla Terza Cappella lungo la Via Sacra. E come non pensare, soprattutto, che se quell’opera se ne sta lì dal lontano 1983, oggetto di opinioni divergenti, restaurata un paio di volte perché esposta alle intemperie, questo si deve alla straordinaria provocazione di un indimenticabile sacerdote: monsignor Pasquale Macchi. Non era facile e politicamente corretto commissionare un tema sacro a un artista ateo e comunista: non v’erano dubbi, allora, su queste sue caratteristiche personali ed ideologiche. Nemmeno era agevole far digerire l’invasione di una pittura del ventesimo secolo in un panorama artistico seicentesco. Colori squillanti, d’impronta mediterranea, tra tinte tenui in un ambiente prealpino: un bel pugno nello stomaco. Ma il monsignore osò, sapendo quello che faceva e ciò a cui andava incontro. Questo pensiero mi ha fulminato una sera di luglio ai Giardini Estensi mentre Toni Servillo, leggendo brani di Giovanni Testori, illuminava il rapporto di amicizia tra il grande critico d’arte e il pittore di Bagheria. So per certo che Andrea Chiodi, artefice di uno dei migliori spettacoli del suo festival Tra Sacro e Sacro Monte, ha raccontato a Servillo la stranezza della vicenda. E non fatico a credere che una certa Varese si sia sentita orgogliosa di aver avuto tra i suoi ammiratori Testori e Guttuso, quasi ignorati da vivi. “Eravamo simili fino alla vergogna” scrive il primo i una lettera al secondo. C’è la cronaca e poi arriva la storia. La città si divise sull’opportunità di una “Fuga in Egitto” moderna e laica alla Terza Cappella. Oggi c’è solo la riconoscenza nei confronti di un prete che con i fatti ha dimostrato di voler bene al luogo natio. Egli aveva conosciuto Guttuso quando stava al servizio di Palo VI in Vaticano. Tra i due era nata stima reciproca e pensiamo che a proposito della religiosità del maestro di Bagheria, Macchi condividesse l’idea di Giulio Andreotti: era sì comunista l’autore dei “Funerali di Togliatti” e della “Vucciria”, ma al cospetto di Dio bisognava considerarlo non un agnostico, bensì un “transfuga della fede”. Va sottolineata la riconciliazione pubblica di Varese con Guttuso, oltre tutto proclamato cittadino onorario nel 1984: gli hanno dedicato di recente due mostre al Villa Mirabello e al Castello di Masnago, che per anni quel nome famoso illustre s’era accompagnato a vicolo cieco tra le vecchie case di Velate. Che cosa manca, allora, perché il recupero di una memoria risulti perfetto? Manca il dare seguito alle dichiarate volontà di Guttuso: mi piacerebbe legare indissolubilmente la mia vicenda terrena a Varese dove ho trovato l’estro e la serenità per dipingere, lontano dai clamori della mia Sicilia. Pensava Guttuso a sue opere esposte permanentemente tra noi. L’occasione ci fu quando il collezionista Fancesco Pellin sognava un luogo nel quale collocare per sempre i quadri che aveva acquistato personalmente da Guttuso nel suo atelier di Velate. Poteva accollarsi un simile impegno un Comune da solo? No, non poteva farlo. L’onere avrebbe dovuto accollarselo qualche fondazione bancaria, con l’ausilio di mecenati. Ma Varese era ormai “sbancata”, avendo perso il controllo dei propri istituti di credito. E mecenati non se ne trovarono. Peccato.