La lezione del mafioso
- Gianni Spartà
- 29/08/2024
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Beffa del destino: il mafioso e il corrotto vicini di cella nel
carcere dei Miogni che cade a pezzi. Si confidano, ciascuno con
i suoi guai: uno ha ucciso, tante volte, l’altro ha rubato, fin
quando non l’hanno preso. Tra i due nasce umana solidarietà.
Il mafioso è abituato allo schifo carcerario, ma essendo in
isolamento, al pari dell’imprevedibile compagno, gli dà
conforto: “Siamo fortunati io e lei, gli altri stanno in cinque uno
sopra l’altro dove la capienza è per due-tre e hanno il cesso a
vista nel piccolo spazio vitale”.
Il corrotto è all’esordio, pensa alla famiglia e alla reputazione
distrutta. Il conforto non lo sfiora. Fino a poche settimane
prima era un re della città, poi c’è stato il finimondo:
tangentopoli, caduta degli dei, arresti a ripetizione nei palazzi.
Questa storia è vera e documentabile, risale a un’afosa estate
del 1992, che per Varese e Milano fu un Quarantotto. Ve la
raccontiamo senza nomi, fedeli al diritto all’oblio giudiziario
per chi ha pagato dazio alla legge e magari non c’è più. Ma
serve, il quadretto sorprendente, per rimarcare come appaia
ipocrita rispolverare oggi la questione carceraria con sdegnate
interviste dopo la raffica di suicidi dietro le sbarre: 54, uno
proprio ai Miogni. E serve per dire che tutto quanto bisogna
sapere sulle vergogne penitenziarie si sa da quando Marco
Pannella digiunava e Giovanni Paolo II, ospite delle due
Camere riunite, implorava la politica a usare ragionevole
clemenza con chi ha sbagliato (come molti anche nell’uditorio),
ma resta una persona. Il suo successore Francesco ha appena
detto al vaticanista Andrea Tornielli: “Ho un rapporto speciale
con coloro che vivono in prigione, privati della loro libertà.
Sono stato sempre molto attaccato a loro, proprio per questa
coscienza del mio essere peccatore. Ogni volta che varco la
porta di un carcere per una celebrazione o per una visita, mi
viene sempre questo pensiero: perché loro e non io? Io dovrei
essere qui, meriterei di essere qui. Le loro cadute avrebbero
potuto essere le mie, non mi sento migliore di chi ho di fronte.
Così mi ritrovo a ripetere e pregare: perché lui e non io?”
Ora, i vecchi Miogni che resistono inamovibili davanti a una
scuola elementare nella Varese civile rappresentano il
fallimento di almeno tre generazioni di classi dirigenti e delle
loro promesse tradite. Chi non ricorda il ministro guardasigilli
Castelli che s’era impegnato a risolvere il problema del
sovraffollamento in Lombardia costruendo nuove case di
pena? Niente, non è successo niente.
Ci sono immagini che si stampano per sempre nella memoria
di un cronista. Una è la bottiglia dell’acqua Panna, legata a una
garza d’ospedale e infilata nel buco della turca per respingere
l’invasione di pantegane all’interno della prigione varesina. Ero
in visita autorizzata da Roma alla fine degli anni ’80. Da allora è
cambiato qualcosa, rattoppi, ammodernamenti dei servizi
igienici, ma nessuno ha saputo affrontare il problema vero: il
trasloco altrove di un carcere datato 1893 e dichiarato
dismesso 2001, secondo l’ordine del giorno presentato al suo
governo dal parlamentare Stefano Candiani il 7 agosto scorso.
Tutto ciò in costanza di richiami delle corti europee all’Italia
per il “trattamento degradante” riservato ai detenuti. Ma
prima che alle autorità di Strasburgo la situazione di invivibile
disagio dovrebbe ripugnare alla coscienza nazionale. Invece
avanti così con il presunto Abele che lascia marcire Caino,
quando lo dovrebbe rieducare, nell’interesse di tutti.
Il disastro carcerario rotea come un boomerang sulla scena del
Paese, impegnato nelle beghe di potere di quanti stanno al di
qua del muro. E non sempre sono migliori di quelli al di
là. Eccolo il vero nodo della giustizia italiana: non solo la
separazione delle carriere, ma anche i processi che non si
fanno o se ne fanno troppi, le corti penali che vengono
schierate per reati da quattro soldi, i detenuti per lo più in
attesa di giudizio. Beato chi non ha bisogno di amnistie, di
indulti e del refugium peccatorum delle prescrizioni.
Tornando al mafioso e al corrotto valga ciò che il primo, un po’
sadico, disse allo sventurato compagno in lacrime: “Non pianga
è inutile. Qui dentro sono entrati tanti come lei. Adesso avrete
capito come si vive in un fetido buco tra sbobba e rogna”.
Si abbracciarono.
Sono passati sei lustri. Invano.