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Guardie e ladri sotto rete

  • Gianni Spartà
  • 15/09/2024
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Contrabbando

Si ritrovano al caffè, al circolino, all’ombra di campanili che li videro avversari nelle notti di luna piena, cinquanta- sessant’anni fa. Guardie e ladri dei (bei?) tempi del contrabbando, finanzieri e spalloni che erano come cani e gatti e oggi sono amici per la pelle. Quella pelle rischiata, gli uni a correre all’impazzata lungo le strade di frontiera, con sacchi di juta legati al collo, gli altri all’inseguimento con le bande chiodate pronte a essere lanciate sotto le ruote, non ancora piene, dei fuggiaschi. E come se il tempo avesse cancellato tutto: odi, rancori, orgoglio di appartenenza alla legge, per quanti vestivano una divisa, al mondo dei reati, per coloro che arrotondavano lo stipendio arruolandosi nell’esercito dei trafficanti di sigarette, orologi, pellicce, caffè, roba presa in qualche deposito del Canton Ticino e trasportata clandestinamente in Italia. 
Per il figlio di un doganiere, cresciuto a Porto Ceresio con il lago che era una sorta di parete divisoria tra quanto appartiene a “noi” e quanto a “loro”, la Guardia di finanza rappresenta ancora un simbolo solenne e romantico. Si diceva in paese che i personaggi di spicco della comunità erano tre: il sindaco, il parroco e il tenente delle Fiamme gialle, qualche volta il capitano, che aveva sotto di sé una decina di uomini impiegati al valico - il punto più freddo della zona, poco soleggiato, investito dal vento di tramontana in discesa libera dalle montagne - e alla dogana – una costruzione in stile liberty, dalla quale passavano per i controlli frontalieri sbarcati dai battelli provenienti da Lugano . Parliamo di un piccolo mondo antico che anni fa Sergio Scipioni, con la passione e forse la nostalgia dell’ex, ha fatto rivivere nelle pagine di un libro-amarcord, “Caini e spalloni – Storie di finanzieri, contrabbandieri e cani”. La GdF era la bestia nera di banditi da strapazzo che di notte con le bricolle piene di stecche di sigarette, s’infilavano in qualche buco della rete di confine, lassù sulle montagne. Dalla Svizzera traslocavano in Italia e poi si precipitavano giù, a rotta di collo, percorrendo sentieri conosciuti, per arrivare puntuali al rendez-vous con il trasportatore . Era costui lo spericolato conducente di un’auto, il grossista di riferimento, il fiume nel quale confluivano, come in un estuario, i rigagnoli sgorgati nel Canton Ticino e sfociati in Lombardia attraversando i boschi. Gli spalloni arrivavano, caricavano le Marlboro e le Murattis a bordo, chiudevano baule e sportelli e davano voce all’autista: vai, vai! Potente, flessibile nelle curve, capace di tenere la strada, spadroneggiava in quegli anni la Giulietta costruita nello stabilimento dell’Alfa Romeo ad Arese. I finanzieri rispondevano con lo stesso modello, magari "truccato" per andare più forte e con il fischio di una sirena che teneva compagnia alle popolazioni della Valceresio solitamente dopo la mezzanotte. Quanti inseguimenti, quante sgommate e quante frenate brusche lungo la strada che, alternando salite e discese, curve e rettilinei. Poi - verrebbe voglia di dire purtroppo - gli "spalloni" si estinsero, i loro driver pure e le "bionde", come si chiamavano in gergo le sigarette di contrabbando lasciarono il posto ad altro. Alla droga, ai sequestri di persona, alle estorsioni, ai business criminali orchestrati da soggetti mandati nelle nostre contrade in soggiorno obbligato e cresciuti fino al punto da diventare boss. Erano capi e picciotti di cosche calabresi e siciliane trapiantate al Nord. Ma lo si sarebbe scoperto più tardi. Troppo tardi  

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