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Lidia, l’ultimo enigma

  • Gianni Spartà
  • 01/10/2024
  • 0

Stefano Binda senza indennizzo

  L’ultimo mistero del caso Lidia Macchi non riguarda solo chi l’ha uccisa con brutale ferocia nel gennaio del 1987, quando i femminicidi non erano ancora valle di lacrime quotidiana come oggi. Ce n’è un altro ed è l’ostinazione con la quale i giudici di Milano ostacolano e limitano il diritto di Stefano Binda a essere risarcito per i tre anni e mezzo di custodia cautelare a quasi 40 anni dai fatti. Le ipotesi sono tante e vanno all’imperscrutabilità dell’agire umano a un dubbio atroce: c’è qualcosa che la pubblica opinione non conosce e che nel processo sovrano non è emerso? A questa domanda potrebbero rispondere i magistrati o Stefano Binda che in una intervista a Paolo Grosso sulla Prealpina di domenica si è definito contrariato e perseguitato dalla giustizia. Una giustizia fallace, a volte sfortunata, che passa da un ergastolo in primo grado a una assoluzione piena confermata dalla Cassazione. Vai a capire perché quando non poteva inquinare più nessuna prova, quando era socialmente pericoloso solo a sé stesso con tutti i suoi problemi e quando l’eventuale possibilità di fuga poteva essergli impedita con altri mezzi, Binda finì dietro le sbarre cautelari. Poi c’è il dramma della famiglia di Lidia. Nel 1987 a un padre e a una madre dissero che l’assassino di sua figlia era un prete. Fu il primo abbaglio doloroso di una storia giudiziaria nata male e finita peggio. Un rocambolesco test del Dna fallì calorosamente. Non poterono confrontare le impronte genetiche lasciate dall’assassino sul corpo della ragazza con quelle del sacerdote che aveva accettato la prova spontaneamente.  Dopo un vuoto giudiziario di cinque lustri ecco il secondo duro colpo per i Macchi: è stato Stefano Binda, un compagno di liceo di Lidia. L’ha violentata e uccisa, ventinove coltellate, e con una lettera delirante ha firmato il delitto. Ma Binda, definito intellettuale dannato dalla gip che lo arrestò, oggi prende il caffè al bar del suo paese e fa il volontario in un carcere, rispettato da chi non l’ha mai creduto un mostro. Succede, è successo, succederà che un uomo entri da assassino in un tribunale e ne esca vergine da ogni colpa. Succede, è successo, succederà anche il contrario. Il fatto è che nel caso di Lidia Macchi quando Binda entrò ai Miogni il processo era ormai azzoppato. Anche da guerre interne: toghe contro toghe. Incredibile ma vera la distruzione dei vetrini sui quali poteva essere rimasto il Dna dell’accoltellatore. Inutile scomodare il meglio della criminologia forense se non ci sono più reperti da esaminare. Azzardato tentare di ri-procurarseli svegliando dal sonno eterno i resti di Lidia, sepolti da 30 anni. Che dolore atroce per una mamma dire sì alla riesumazione. Spettacolare, infine, l’idea di mobilitare l’esercito per rivoltare un parco cittadino alla ricerca dell’arma del delitto sulla base del racconto di una testimone: Stefano si era recato in quel parco con un pacchetto pochi giorni dopo il delitto. Non si trovò nessun coltello. Morale: il processo di primo grado ha ruotato attorno a una perizia calligrafica su una lettera attribuita a Binda, come quando non c’erano i Ris, ma i vecchi marescialli della Mobile. A Milano, la corte d’appello non se la sentì di sottoscrivere il “fine pena mai” di Varese senza il sigillo di una prova certa, non suscettibile di interpretazioni contrastanti. Non poteva che finire così. Ricordo l’onestà intellettuale di Carmen Manfredda, allora procuratore generale di Milano. Entrando nel palazzo di giustizia di Varese alla prima udienza del processo sospirò: “Le vie del Signore sono infinite, certo non abbiano la prova regina”. L’ottimismo della fede contro il pessimismo della ragione.  

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