Nella scia di Fo
- Gianni Spartà
- 26/10/2024
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Marina de Juli
Bello pensare che Marina De Juli, figlia della Valceresio metà italiana e metà svizzera, ha intrapreso la strada dell’arte negli anni ’60 e ’70 quando i sentieri di confine erano ancora percorsi da “spalloni” inseguiti dai finanzieri e prima, durante la guerra, avevano agevolato la fuga notturna a di migliaia di ebrei. O scappavano o finivano sui treni per Auschwitz dove “c’era la neve”. “Vado a Milano, mamma, voglio fare teatro”, diceva nella sua casa di Borgnana, frazione di Cuasso al Monte. “Vai, vai, vai Milano a fare la puttana”. La ragazzina sorrideva, capiva che quella povera donna, vedova, non poteva capire. Ma sapeva di avere in tasca anche un indirizzo giusto. La scuola di Dario Fo e di Franca Rame, l’infusorio di due intelligenze votate al pensiero, il luogo in cui s’imparava a fare i giullari impegnati. Era certa che sarebbe stata un’allieva diligente, quasi una figlia per una coppia di campioni dello spettacolo popolare. Così fu ed eccola Marina che con la sua chioma rossa prende a calci l’aria sul palcoscenico di “Johanna Padana a la descoverta de le Americhe” e parla una lingua strana: il grammelot, tanto apprezzato nel mondo d’aver fruttato a Dario il Premio Nobel e a Franca il ruolo della compagna ideale, mai silenziosa, se si può più casinista di lui. Che cos’è questo strano vocabolo, grammelot? Un linguaggio teatrale inarticolato fatto di suoni piuttosto che di verbi e aggettivi. Un’ un’espressione confusa, un gioco linguistico che prende forma imitando le sonorità di una lingua deformandole, prestandosi alla caricatura, quindi al genere comico. Marina lo rende attuale, in un periodo da torre di Babele, dove nessuno si capisce con l’altro, dove si fa la guerra, si distruggono città, si ammazzano bambini. Ha avuto una stagione felice Marina nella sua Varese. E non è la prima, non sarà l’ultima perché lei, da solo con quattro luci di scena, riempie le sale. A proposito di Valceresio e di memoria, fu formidabile la sera in cui un altro figlio di questa terra, Fausto Papetti, tornò a Viggiù dopo aver girato il mondo. Salì su un palco, cominciò a soffiare molecole d’ossigeno nel sassofono di cui era diventato il re, regalò orgoglio imperituro ai compaesani. Correva l’anno 1975. Marina De Juli, forse a sua insaputa, sconfessa quanti sostengono che il teatro ha poco da raccontare a Varese. Non ci fregiamo di cattedrali gotiche, vero, ma abbiamo incomparabili tesori della storia e del pensiero. A Besano, altro spunto, prima del Covid, visitatori americani e cinesi entrano in un minuscolo museo per vedere le impronte fossili di un balenosauro. Quando a Varese c’era il mare. Marina De Juli continua il suo percorso artistico sulle scia di una esperienza straordinaria: le atmosfere respirate negli spettacoli di Dario e a casa sua con le carte del ramino e una bottiglia di rosso sul tavolo. In questa terra è nato un Premio Nobel, ignorarlo per pigrizia o snobismo è da masochisti. C’è opportunità formidabile: stanno per scoccare i cento anni dalla nascita (Sangiano 1926) dell’uomo di teatro più ascoltato nel mondo.