In preghiera con un santo
- Gianni Spartà
- 02/11/2024
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Quarant’anni fa
Il passo da alpino lungo la strada a ciottoli che porta al Sacro Monte, il rosario declamato con voce ferma e una battuta memorabile: “Ditemi se devo rallentare”. Il seguito era in affanno tra la quarta e la quinta cappella e il Maratoneta di Dio se ne faceva carico con spontaneità. Era il 2 novembre del 1984, sono passati 40 anni. Nel frattempo nessuno ha dimenticato l’immensa marcia per l’ultimo saluto a San Giovanni Paolo II l’aprile del 2005. Davanti a San Pietro un oceano di volti lambiva il colonnato che il Bernini eresse maestoso proprio perché un giorno contenesse il Grande Addio. Ma se è vero che ciascuno porta nel cuore il “suo” Karol, a seconda delle emozioni provate incontrandolo, ascoltandolo, leggendolo, a noi è rimasto negli occhi il ritratto di un uomo con le guance arrossate, la fronte rigata appena da un filo di sudore, la veste bianca che strisciava sugli ultimi gradini, dal balcone del Mosè al santuario mariano, quando la gamba destra s’alzava per vincere la gravità della salita. Era una serata speciale: il cielo inondato dai riflessi della luna, le luci di Varese vicine come capita quando, al tramonto, è possibile avvistare a Occidente il dente aguzzo del Monviso. Giovanni Paolo II varcò la soglia del santuario sostando a lungo sotto la statua della Madonna nera che gli ricordava la Vergine venerata a Czestochowa. Poi incontrò le Romite Ambrosiane nella loro clausura. Per il credente egli era il successore di Pietro, il vicario di Cristo giunto dove Ambrogio aveva fermato gli Ariani. Per l’agnostico, già allora, nel 1984, era l’uomo del dialogo tra Est e Ovest, il teorizzatore di un’Europa alimentata da due polmoni uguali e con contrari al di là e al di qua, del Muro di Berlino, non ancora abbattuto. E oggi quella sembra sempre un’utopia perché il vecchio continente, oltre tutto in guerra, rinnega le sue radici cristiane. Quante volte negli anni della sua sofferenza vissuta in pubblico abbiamo pensato al Wojtyla tonico ed energico visto da vicino sulle curve del Sacro Monte sopra Varese. Si presentò a bordo di una jeep bianca dalla quale svettava la figura ieratica del cardinal Martini, allora arcivescovo di Milano. Cominciò a recitare l’Ave Maria e poco dopo, alla Terza, avvistò la Fuga in Egitto affrescata da Guttuso. Un’ora dopo, alle cinque della sera, sbucò in fondo in fondo alla salita che separa la quattordicesima stazione dai bastioni del santuario. Appeso alla veste, aveva un microfonino che amplificava per la valle il suono dei misteri del rosario. Vittorio Messori ha scritto che a differenza di quanti molti credono non è affatto la Chiesa a “fare” i santi. I santi li “fa” il senso della fede dei credenti, li “fa” la venerazione che circonda un cristiano in vita e poi attira i devoti sulla sua tomba.