La Salvini Premier
- Gianni Spartà
- 05/12/2024
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Giravolte e tradimenti
Che cosa non doveva essere la Lega Nord, prima di diventare la Salvini premier? Non doveva essere: a) un prefisso telefonico, cioè uno zero virgola, rubando le parole a Umberto Bossi, il fondatore. Non doveva essere: b) una forza centralista, dirigista, statalista, con simpatie nazistoidi sparse dappertutto in Europa. Non doveva essere: c) un distributore automatico di incarichi e poltrone nel sottogoverno e alla Rai sul modello democristiano-socialista degli anni ’80 e seguenti. Non doveva essere: d) un partito lontano dai problemi dei territori come quelli di cui sta soffrendo la sua culla sull’asse Cassinetta di Biandronno-Schiranna (Beko-Ktm), equidistanti da Cazzago Brabbia, paese di un super ministro dell’Economia. Il quale, da onesto figlio di pescatore, non sa mentire: la politica è debole, dice, il globale ha travolto il locale. Amen. Ora, addebitare le omissioni di cui ai punti a) b) c) d) alle colpe della Lega di oggi, bastonata pure alle elezioni regionali e comunali, è giusto solo in parte. Anche Bossi, presentandosi in canottiera ad Arcore tanti anni fa per lo storico abbraccio di Berlusconi in camicia di puro cotone, fu incoerente rispetto alle intenzioni originarie. Ma quel patto di ferro avvantaggiava la Lega con una differenza: attaccando i “giudici comunisti”, il Cavaliere difendeva il suo capitale, le sue tv, gli interessi di un fantasioso imprenditore con migliaia di dipendenti. Se fa le stesse cose uno che non ha mai lavorato in vita sua, il confronto crolla. E poi Bossi con la celebre alleanza otteneva soldi per la Padania (giornale) e i sindaci leghisti nei propri feudi, grazie ai voti di Forza Italia. Insomma, non proprio estetica politica, ma garanzie di sopravvivenza. Senonché nell’anno di disgrazia 2024, Salvini si ritrova criticato da larga parte della base, a corto di elettori nel ceto moderato, con un Ponte sullo Stretto che ancora non sta in piedi e spiazzato ai vertici, dove Giorgia Meloni potrebbe rimpiazzarlo con un Calenda qualunque. O magari con la non belligeranza della Schlein, chiudendo la partita per anni. Ma questo dipende dal coraggio di due donne: perciò non è impensabile. In questi giorni il Capitano, con una richiesta di condanna a sei anni sul gobbo, si ritrova ad affrontate niente meno che il congresso lombardo del suo partito, in vista del federale nel 2025. Gli tremano le gambe? Nient’affatto. Nessuno né oggi né domani gli giocherà il posto. Svelto come un gatto, Salvini ha disseminato di anonimi seguaci la sua Lega e pensando alla leadership nazionale non si vede chi, nei piani alti nella nomenclatura, lascerebbe una poltrona comoda per adagiarsi su un letto di spine. Zaia e Fedriga? Neanche per sogno con un’autonomia differenziata giuridicamente zoppa e suscettibile di referendum popolare. Calderoli? Ormai fa il grande vecchio, l’ultimo degli ideologi: ripartire da uno 0,8 scarso non è cosa che lo può entusiasmare. Tutto questo per dire che la Salvini premier è in una botte di ferro, si fa per dire. Un partito, il più longevo della presunta Seconda Repubblica, non può cambiare pelle un’altra volta. La sostituzione etnica, dal Monviso a Messina, ormai c’è stata. Il populismo di destra riesce meglio ad altri, di destra da sempre. Non puoi fare il sovranista a Pontida dove i tuoi padri aizzavano le folle locali con riti celtici e corna vichinghe. Salvini resterà accanto alla Le Pen, a Orban, a Trump. Tutto sta a vedere se continueranno ad ascoltare le sue iperboli. Quei pochi che ancora si recano alle urne per votare lui.