Blog



Qualcuno si dimetteva

  • Gianni Spartà
  • 01/02/2025
  • 0

Zamberletti sfidò Moro

Sei anni dalla scomparsa di Giuseppe Zamberletti, intitolazioni di centri della Protezione civile nella sua provincia natale. Ma anche il ricordo di quando egli diede le dimissioni da commissario del governo per il terremoto in Friuli, mentre oggi accade altro. Successe un Quarantotto: “Tu non lo fai per umiltà, ma lo fai per superbia: ti senti un eroe nazionale per il terremoto e non accetti che sulla tua opera ci sia un’ombra. Ricordati: tu puoi dire quello che vuoi ma le tue dimissioni sono un atto intollerabile”. Aldo Moro non era solito scomporsi, alzare la voce. Quella volta lo fece con un suo pupillo, con l’uomo che aveva mandato in Friuli a togliere le castagne dal fuoco al governo di cui era premier. Sul tavolo aveva i titoli dei giornali: “Arrestato per tangenti il segretario del commissario. Ha preso soldi da un fornitore di case prefabbricate”. “Un democristiano che si dimette, nessuno ci crede”. E ancora: “Il segretario di Zamberletti chiedeva soldi per la DC”. Scandalo quando le ferite del terremoto sanguinavano ancora. Poi i commenti, alcuni ipocriti come spesso accade in queste vicende: “Ha fatto bene”. “Un atto doveroso, da non sciupare”. Insomma, l’opinione pubblica inneggiava al gran rifiuto, ma Aldo Moro aveva un diavolo per capello alla fine di agosto del 1977 nella sede storica di Piazza del Gesù. Si sentiva se non tradito, spiazzato. Aveva già la grana della fuga di Kappler dall’ospedale di Roma che coinvolgeva le responsabilità del ministro della Difesa di allora, Vito Lattanzio, una grossa personalità politica, uno dei democristiani più votati dell’epoca insieme con Andreotti e Gaspari. Uomini che portavano voti. E Moro in quel momento era presidente della Balena bianca. Zamberletti, 44 anni ancora da compiere, una vaga rassomiglianza con Henry Kissinger, si prendeva la ramanzina del capo, ma a non andarsene, col suo segretario in carcere, proprio non ci stava. Fino a quel momento aveva raccolto elogi, anche dagli avversari politici, non poteva perdere la faccia. A costo di apparire “superbo” agli occhi del proprio mentore. Il suo racconto nella sua biografia La Luna sulle ali: “Balbo non era propriamente il mio segretario, ma comunque un mio uomo. Era accusato per una mazzetta di dieci milioni di lire insieme con un sindaco del Friuli. Ufficialmente quei soldi servivano per comprare televisori da mettere nelle case dei terremotati. Secondo l’accusa i motivi erano altri. Si è fatto sei o nove anni di carcere, non ricordo bene. Io ovviamente non c’entravo niente, oltre tutto avevo lasciato Udine da un anno. Apriti cielo quando andai da Francesco Cossiga al Viminale per comunicargli le mie dimissioni. Mi disse che ero pazzo. Andreotti aveva già preparato una lettera in mia difesa da mandare ai giornali. Mi fece sapere che da presidente del Consiglio avrebbe respinto il mio abbandono. Ma io mi ricordavo che cosa avevo dichiarato a Bruno Vespa in una intervista televisiva quando, secondo la vulgata, avevo poteri dittatoriali. Avevo risposto che qualsiasi cosa avvenisse, il responsabile ero io. Anche per fatti compiuti da chi con me lavorava. Andreotti aveva qualche ragione quando mi diceva: sembra che ci dobbiamo giustificare per qualcosa. Alla fine Moro si rassegnò, ma non troppo”.  Un piccolo amarcord, a titolo di confronto, senza farsi illusioni: il bronzo non si tramuta in oro.     

Aggiungi Commento

Nome
Email
Testo Commento (evidenzia per modificare)

(0) Commenti