Il Folle di Dio
- Gianni Spartà
- 23/03/2025
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Francesco a casa
Deve avergli parlato così il medico che l’ha curato per cinque settimane: Santità, la mandiamo a casa, è contento? Ha rischiato di morire due volte da quando è ricoverato qui dentro, se lo ricordi. Non può tornare alle sue occupazioni, deve cautelarsi, ci vogliono almeno due mesi di riposo. Riposo, glielo ripeto. Il Papa ha obbedito. Salito sulla solita 500 bianca, ha taciuto per un po’, poi ha aperto bocca esercitando una sorta di motu proprio: “Voglio passare da Santa Maria Maggiore, portatemici”. Non lo sapeva nessuno del seguito. Forse nemmeno lui. L’idea dev’essergli balenata nel cuore dopo aver visto quel mazzo di fiori gialli in mano a una donna anziana, comparendo a una finestra del Gemelli. Impazzita la scorta, preoccupato il suo segretario. E la gimkana papale nelle vie di Roma è finita su tutte le televisioni del mondo grazie all’intuito di due giovani croniste di Rainews e di un operatore che filmava il viaggio. Sono trascorsi vent’anni dalla morte di San Giovanni Paolo II, l’Atleta di Dio che andava a sciare in montagna dove una volta lo raggiunse Sandro Pertini. Ora abbiamo il Folle di Dio che appena dimesso da un ospedale con tanto di prescrizioni cliniche, si reca nella basilica in cui è custodita una Madonna alla quale è devoto. Forse per depositare ai suoi piedi idealmente quei fiori gialli dopo essere tornato “a riveder le stelle”. Il confronto tra Wojtyla e Francesco non è casuale: entrambi hanno scelto di rendere pubblica la personale sofferenza fino all’ultimo e di mostrare i limiti umani che sono anche dei pontefici. Pare un segnale alla Curia e ai fedeli: i papi affrontano la croce, non la evitano, i papi sono a vita. Se poi uno è stato scelto “dai fratelli cardinali alla fine del mondo”, a quelle latitudini bisogna cercare la sua catechesi. Francesco si fece capire subito dopo l’elezione il 13 marzo del 2013. Il suo primo viaggio si svolse “alla fine del mondo” più vicina al Vaticano: Lampedusa. Gettò fiori nel mare nostro ridotto a ossario, celebrò la messa davanti a un crocefisso fatto con legni di barconi logori tirati a secco vicino al porto, strinse la mano a uomini neri coperti di stracci, a donne in fuga dalla guerra, dallo stupro, dalla fame. In quei giorni sulle coste dell’isola s’infrangevano ondate di miseria e di morte. E nel cuore dell’Europa, la cui debolezza aveva denunciato profeticamente il suo predecessore Ratzinger, il papa nuovo invitava a non avere paura dell’Africa dannata. Non ci può essere una rivoluzione all’incontrario, dei ricchi contro i poveri. Per questa sua insistenza nel concepire la Chiesa come ospedale da campo, si sono sollevate tante sopracciglia nei volti delle gerarchie vaticane. D’altra parte anche Sant’Agostino una volta criticò il Papa e San Paolo contestò apertamente Pietro. Sono duemila anni che nel Cristianesimo si aprono crepe. Ma la Chiesa non è un’organizzazione politica: ogni fumata bianca ha consegnato alla storia un papa capace di cambiare qualcosa, di lasciare tracce indelebili, di apparire più amato del predecessore. Ora nessuno vorrebbe essere nei panni di preti, suore e laici col compito di tenere a riposo Francesco che dieci minuti dopo le dimissioni (dall’ospedale, sia chiaro) ha subito sgarrato. E’ un uomo sofferente, lo si è visto dopo le poche parole pronunciate dalla finestra del Gemelli, il respiro faticoso, le braccia che non si aprivano. Ma fermo non ce lo immaginiamo.