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Cinema e memoria

  • Gianni Spartà
  • 11/09/2025
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Ammazzare Stanca

Lido di Venezia, il festival internazionale del cinema, le star di Hollywood, il red carpet, i riflettori accesi anche di giorno, le storie vere che ritrovano la loro voce sul grande schermo. E ci interrogano a distanza di un’epoca. Siedo accanto a un grande regista e produttore, Marco Bellocchio, 85 anni, che il giorno prima ha presentato Portobello, titolo soave del massacro giudiziario subito da Enzo Tortora vittima della calunnia. Insieme assistiamo alla prima di Ammazzare Stanca, che è l’esatto contrario: questo è il film su un assassino che ha detto la verità. Ha tradito il padre cerbero, ambasciatore delle cosche calabresi infiltrate al Nord. Ha consegnato il sangue del suo sangue ai carabinieri squarciando il velo dell’omertà sul Medioevo dei sequestri di persona in Italia: Emanuele Riboli, Cristina Mazzotti, Tullio De Micheli, Celadon, Cesare Casella. Nella sola Lombardia 400 rapimenti. Confido al vicino di posto perché sono lì: “Vede maestro, ho avuto in sorte, a mia insaputa, di ritrovarmi oggi a Venezia nei panni di un testimone a futura memoria o forse di uno strano notaio…”. Bellocchio sorride. Supero l’imbarazzo e gli spiego: “Se da giovane cronista avessi gettato nel cestino una lettera del protagonista, Antonio Zagari, se non fossi andato a trovarlo in carcere a parlargli e a ricevere il suo memoriale, come da lui richiesto, lei e io questa sera avremmo visto un altro film”. Un nuovo sorriso, stavolta interessato. Del cinema ponte tra cronaca e storia, tra chi ha visto e chi non c’era, Bellocchio è caposcuola. Ha girato Rapito, Il Traditore, Esterno Notte, dirigerà Falcon un film sull’uomo che salvò la Fiat: Sergio Marchionne. Nella fila davanti c’è Fabrizio Gifuni che ha interpretato il presidente della Democrazia Cristiana prigioniero delle BR in Esterno Notte e ora è Enzo Tortora in Portobello. Buio in sala. Mi colpisce la scena iniziale di Ammazzare Stanca: Antonio Zagari ha eseguito l’ultimo comando facendo secco un uomo in bicicletta, indicato come un infame. Corre subito a una fontana per vomitare e lavarsi ossessivamente mani e viso. La vita fatta per anni ormai gli provoca schifo fisico, ha un diavolo in corpo.  Ha ucciso un’altra volta senza modificare il suo status sociale. Non esercita potere nemmeno su sé stesso, non è ricco come i banditi che assaltano banche a Milano, Vallanzasca, Epaminonda, Turatello, viaggia su una 128 rossa scassata. Lui è rimasto proletario come quando viveva in Calabria. La scrittura, lo può salvare la scrittura. Ed ecco il graffio nella coscienza, la repulsione violenta. Comincia a scrivere in cella, senza sentirsi né Corrado Alvaro, nato nella sua terra, né il Conte di Montecristo. Scrive a mano con una grafia insospettabile, pulita, pochi errori di sintassi, fa riferimenti letterari dicendo d’aver servito “…untori che diffondevano la peste dei rapimenti nelle province del Nord”. Giorno dopo giorno compila un brogliaccio di centoquaranta pagine fronte retro, poi lo fa conoscere a modo sua in quella sala-colloqui dei Miogni di Varese, chiedendomi consigli di cui non ha bisogno. La storia c’è, è lì da leggere. Non potevo immaginare che 35 anni dopo il regista Daniele Vicari ne avrebbe ricavato un film con quel titolo che è un tuono, un colpo di lupara, ma lui sì, lui ci credeva. Mi disse che non voleva passare per ipocrita e opportunista. Nell’intervista che pubblico per la prima volta integrale in un libro uscito in primavera per Macchione, Zagari fa questo ragionamento: “Alla luce del mio curriculum è lecito dubitare. Il passato non si cancella e nemmeno la paura che prima o poi mi faranno pagare il voltafaccia. Ma nessuno, solo Dio, ha diritto di disconoscere il cambiamento interiore di un uomo, anche di un assassino”. Antonio il ribelle è morto a Roma nel 2004 in un incidente con la moto. Viveva protetto, i dati anagrafici modificati al pari dei tratti somatici del viso rispetto alle foto segnaletiche e a quelle con i baffoni sabaudi scattate durante le sue deposizioni nei tribunali. Il film lo vedrà, se lo vedrà, non dal Paradiso, ma nelle bolge dantesche in cui vagano le anime inquiete di quanti hanno ucciso e taciuto a lungo, per poi svoltare. Vicari ha capito questo di Zagari: è uno che doveva fare altro. Appena nato lo hanno affiliato alla ‘ndrangheta e ci è rimasto fino al vomito. Due ore e nove minuti di un film crudo, profondo, psicologico. Lo Zagari della fiction, Gabriel Montesi, è un trentenne con una cadenza romanesca che Claudia Donadoni gli ha tolto di dosso per farlo parlare come i calabresi trapiantati in una provincia quasi svizzera, il Varesotto, Buguggiate, Malnate. Per il fratello Enzo (nel film Andrea Fuorto) il trapianto di linguaggio è ancora più intenso. L’unico indenne da operazioni è Rocco Papaleo nato a Lauria, in Basilicata. Interpreta l’ufficiale di collegamento tra i clan del Sud e quelli saliti al Nord negli anni ‘50. E poi c’è la figura centrale, il patriarca Giacomo, l’uomo d’onore, incarnato da Vinicio Marchioni. Per lo più sono attori che non c‘erano quando infuriavano i sequestri di persona veri. Non hanno visto le lacrime e il sangue di quegli anni. Sono figli dell’età digitale, portano in scena (egregiamente) episodi che appartengono al passato analogico. La sensazione è che Ammazzare Stanca rappresenti una staffetta generazionale. E questa sembra la sfida del film di Vicari.   

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