Il frate che assolse l’assassino
- Gianni Spartà
- 06/02/2020
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Il saio e la toga
“E io ti assolvo”: sparato in prima pagina sulla Prealpina del 14 gennaio del 1998, quel titolo ebbe l’effetto di una raffica di mitra. Terribile, assordante. Putiferio tra i magistrati che vedevano comprensibilmente scavalcate le loro toghe solenni, dall’umile saio di un frate, per giunta cappellano del carcere di Varese. Choc nella pubblica opinione scossa dal massacro di Caino: un giovane di 23 anni, bruciato dalla droga, era andato al ristorante con sua mamma, suo papà, sua fratello e rincasando in una villetta di Cadrezzate in piena notte li aveva sterminati con odio lucido e premeditato. Pochi furono disposti a considerare la differenza tra giustizia umana e misericordia divina. Quasi nessuno si ricordò di un altro francescano, frate Cristoforo, molto più famoso di padre Gregorio della Brunella, che nei Promessi Sposi, prima di rinchiudersi in un convento, s’era recato nella casa del fratello di un uomo ucciso quando non era ancora consacrato, e ne era uscito con un dono prezioso e imprevisto: il pane del perdono. Pochissimi, infine, pensarono che la demarcazione tra buoni e cattivi non è una muraglia di pietra invalicabile, ma una sottile striscia nell’anima: ciascuno, soprattutto un prete, la può superare interrogando la propria coscienza. Col coraggio della speranza. Se così non fosse sarebbero scartoffie i vangeli, non solo per i credenti, parole al vento i moniti di papi come Francesco. Ma non crediamo che padre Gregorio, scomparso a 88 anni nei giorni scorsi, avesse fatto ragionamenti teologici all’indomani dell’orrenda strage di Cadrezzate. E dubitiamo si fosse sentito in colpa violando, sull’onda d’umana emozione, il precetto del segreto confessionale. Agì d’istinto. Aveva incontrato dietro le sbarre quel disgraziato che manifestava l’urgenza di parlare con Dio, prima che con i magistrati; aveva creduto al suo smarrimento per quanto aveva fatto, ne riferì le conclusioni ai giornalisti: “Io gli ho dato l’assoluzione”, disse sicuro di provocare sconcerto. Era fatto così quel frate zoccolante che di tanto in tanto portava nelle redazioni dei giornali la voce degli invisibili, cioè dei detenuti con le loro colpe e i loro diritti dimenticati. Veniva a raccontare il sovraffollamento delle celle, cinque persone dove ce ne potevano stare due. Una volta, grazie ai suoi auspici e al benestare del ministero, propiziò la visita ai Miogni del cronista che non dimentica un particolare raccapricciante: nel buco di un cesso alla turca c’era una bottiglia di plastica dell’acqua minerale, usata come tappo per impedire l’invasione dei topi. Cento denunce, altrettanti richiami provocavano immediate ispezioni di parlamentari che, all’uscita dal carcere, convenivano sulla disumanità di certi trattamenti e si impegnavano con le parole: bisogna costruire una nuova casa circondariale, spostarla dal centro della città, oltre tutto davanti a una scuola elementare. I Miogni sono sempre lì, ristrutturati in parte, sempre indegni di un capoluogo del Nord evoluto. La scandalosa assoluzione di Elia ormai è materiale d’archivio. Il perdono terreno resta un mistero insondabile, padre Gregorio è morto e sono morti Pannella con i suoi digiuni di protesta in difesa dei senza voce e Giovanni Paolo II che nel 2002, accolto dalle Camere riunite, chiese quasi in ginocchio ai parlamentari di concedere un’amnistia. Sono passati diciotto anni e oggi la soluzione proposta è il processo senza fine mediante demolizione delle barriere che impediscono ai reati di prescriversi. Ci si lava la coscienza pubblica così: non adeguando il sistema carcerario, non edificando nuove istituti di pena, ma imboccando scorciatoie imbarazzanti a rigore di diritto e abbandonandosi a sfilate carnevalesche in coincidenza dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Nei mesi scorsi il Garante dei detenuti italiani ha comunicato che dietro le sbarre abbiamo sessantamila ospiti e c’è posto per quarantasettemila. Significa che la differenza (tredicimila) non vive, vegeta, non sta in un luogo di recupero, ma di agonia. Nessuno ha fatto una piega. Il carcere di uno Stato moderno dovrebbe avere porte girevoli: tanti ne entrano, altrettanto ne escono. Invece il senso di marcia è unico. Ciò si spiega con il clamoroso fallimento dei riti alternativi, processo abbreviato, patteggiamento, eccetera. Non se li fila nessuno per una serie di ragioni: scarsa conoscenza di quanto la legge prevede proprio per tagliare la giacenza, mancanza di fiducia nel funzionamento dei tribunali dove la linea più breve tra due punti è un arabesco, basso profilo sociale ed economico della maggioranza degli imputati, privi di mezzi per farsi difendere da professionisti preparati e corretti. Riposa in pace, caro Gregorio, hai fatto il possibile, qualche volta esagerando, ma questo è un Paese che dice di cambiare e rimane sempre lo stesso.