La fucilata di Bobo
- Gianni Spartà
- 14/09/2020
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Sindaco a Varese
Mettiamola come agli esami di maturità in omaggio alla scuola che riapre (cari auguri). Tema: Roberto Maroni sindaco di Varese. Traccia: lo studente elabori un testo di valutazioni in stile giornalistico sull’ipotesi di candidatura dell’ex ministro e governatore lombardo alla prima poltrona della città nativa della Lega. Svolgimento: quando Bossi e Maroni giocavano al Gatto e la Volpe, dopo aver deposto pennelli e barattoli di vernice verde usata per imbrattare viadotti, si narrava la seguente parabola. Meglio, la narravano loro due. Umberto doveva sparare a una lepre personificata da un avversario politico o da un alleato che gli rompeva le scatole. Bobo si metteva tra lui e il bersaglio: a un certo punto il capo lanciava un urlo, l’altro si scansava e la lepre sparata finiva a pancia all’aria. La fiction era collaudata e, con Bossi fuori causa per motivi di salute, Maroni dà l’impressione di saperla perpetuare. Adesso il fucile lo tiene puntato lui contro il sindaco da far fuori, il tendenzialmente civico Davide Galimberti sostenuto, si fa per dire, dalla sinistra più divisa e autolesionista d’Europa a livello nazionale. Il colpo è partito nelle scorse settimane, il destinatario si è tolto di mezzo, forse neppure ci si è messo, e la fucilata ha attinto, come dicono i carabinieri, la lepre Salvini. Commenti. Dice Maroni che è stato Matteo a chiedergli di candidarsi. Dice il segretario: decida la sezione della Lega di Varese. La quale aveva già deciso mettendo al posto di Matteo Bianchi, rinunciatario, l’avvocata Barbara Bison, famosa a Gornate Olona dove ha fatto la sindaca. Il fumo del proiettile ha lasciato nell’aria l’odore acre della polvere da sparo, dal quale sono emerse le perplessità dichiarate dei cugini del centrodestra e quelle sottaciute dei notabili del Carroccio varesino. E’ finita qui, per il momento: due-tre interviste di Bobo, silenzio totale di Galimberti, chi vivrà vedrà. Maroni in questi anni ha fatto il disciplinato consigliere comunale, tornando nel Salone Estense dal quale cominciò la sua ascesa. Sta seduto e prende appunti sui banchi leghisti che, a differenza di quelli della scuola al tempo del Covid, non sono ancora monoposto. Il suo è un nome pesante, si potrebbe anche evitare di sottolinearlo. Ha messo le mani (e una volta anche i piedi per una foto scherzosa di Giorgio Lotti) sulla scrivania occupata da De Gasperi quando il palazzo che ospita il ministero dell’Interno era la sede della presidenza del Consiglio. Correva l’anno 1994. Ce le ha rimesse quando tornò al governo Berlusconi, ma nell’intermezzo aveva fatto il ministro del Welfare ai tempi del delitto Biagi. Sembrava finita lì e invece l’ex ragazzo del Viminale, dopo aver maneggiato i cocci della Lega squarciata dalle dimissioni di Bossi (5 aprile del 2012), si è ritrovato in cima a palazzo Lombardia da dove ha lanciato la sfida lombarda, veneta (Lega) ed emiliana (Pd) del referendum vinto per l’autonomia delle Regioni. Oggi è un tranquillo sessantacinquenne che mette a frutto le sue sicure relazioni in società finanziare d’alto bordo con ricchi emolumenti. Al confronto lo stipendio di sindaco di Varese è una paghetta. Qualcosa non torna? Beh, forse sì. Sicuramente non torna che nella sua culla la Lega, e più in generale il centrodestra, abbia ancora bisogno di tirare la giacca al veterano. Significa che nel periodo non collegato, in queste lande non è cresciuto nulla, inchieste giudiziarie a parte. Significa che Forza Italia qui non c’è più, che in Fratelli d’Italia ci sono solo figli unici, che le liste civiche risultano non pervenute sul traguardo del chi-ha fatto-che cosa. In politica tutto si crea, nulla si distrugge. Aggiungiamoci che quasi nulla si ripete. Il capoluogo appare pieno di ruspe per iniziativa pubblica (piazza Repubblica, piano stazioni, demolizioni in via Carcano) e privata (nuova Esselunga, cliniche). Ha recuperato dinamismo, è ripartito, come di fa credere la propaganda? La sua sventura sarà sempre quella di essere posizionato a cinquanta chilometri da Milano, dove Gabriele Albertini in poi, è stato un susseguirsi di poderose metamorfosi all’insegna della metropoli “da bere”, si spera con sorsate diverse. Per il resto sembra che vada bene così: difesa degli interessi dominanti, passo felpato, riservatezza negli affari, orgoglio per il paesaggio che fece innamorare gli scrittori del Grand Tour. Il bello e il brutto di vivere in provincia.