Blog



Nu panaru chinu chinu

  • Gianni Spartà
  • 25/10/2020
  • 0

La raccolta delle olive

Ho raccolto le olive, “nu panaru chinu chinu”, poi ho postato una foto su Facebook e s’è scatenata una tempesta di curiosità. Ma dove? Nella tua Sicilia? Bella forza! No, cari amici di Fb, il fatto è avvenuto “giù al Nord”, precisamente a Velate, quasi Svizzera, dove il palermitano Renato Guttuso si rifugiava d’estate per dipingere in tranquillità. Nell’isola natia lo disturbava il chiasso, lo accecava il sole e a maggio raggiungeva il suo rifugio dell’anima. Qui trovava il silenzio e le ombre necessarie a stimolare la sua arte e nello suo studiolo sotto un castagneto buttava giù i bozzetti di opere importanti: “Vucciria”,”Spes contra spem”, “I funerali di Togliatti”.  Ma la storia  non è finita: ho caricato in auto “u panaru”, l’ho portato alla parrocchia di Sant’Imerio dove da una decina d’anni un gruppo di uomini di buona volontà riceve chili e chili di confetti verde chiaro e verde scuro e ne ricava olio sopraffino: l’olio di Sant’Imerio martire, raffigurato con il sacco e il bastone del pellegrino errante. Ho lasciato un’offerta, tra una settimana mi daranno due-tre litri di prodotto col quale condire l’insalata e gli spaghetti. Bella iniziativa l’olio solidale. Di questi tempi fa pensare alla terra, alla natura, ai mestieri del passato che potrebbero diventare quelli del futuro. Non so a chi possa interessare, ma la raccolta delle olive ha a che fare con la mia vita. Da bambino trascorrevo le vacanze in un paese che si chiama Spartà, come il mio cognome, e nonno Tommaso che faceva il mezzadro mi allettava con due cose: “u panaru” e il gelato. Il primo me lo consegnava di primo mattino dicendomi di coglierci quei chicchi caduti da grossi alberi, uno secolare, davanti a casa. Il secondo me lo pagava la sera: dieci lire, nocciola e cioccolato. Non voleva convertirmi all’agricoltura, anzi: “Devi studiare, laurearti”, diceva. Ma ricordo una sua metafora valida per i campi e per la vita: “Vedi questo ramo che cresce storto? Va raddrizzato da piccolo, sennò lo perdi”. Viveva bene il nonno: aveva galline, conigli, colombi, un cane da caccia, ovviamente un fucile che in siciliano si dice “cannila”, appezzamenti di uliveti, sempre in mezzadria, lungo la collina di Castanea, a quei tempi luogo di villeggiatura per benestanti  messinesi. Non gli mancavano pomodori, melenzane, albicocche, basilico e origano. Aveva tutto tranne l’acqua che ogni mattina arrivava con l’autobotte comunale, scatenando l’assalto alla diligenza. Tutti addosso all’operaio che apriva e chiudeva il rubinetto di una grossa pompa. Tutti con in mano o al collo ogni bendidio di recipienti, dal secchio di ferro, alla quartara che era un vaso di coccio con due manici, oggi oggetto del desiderio a Santo Stefano di Camastra e a Caltagirone, capitali della ceramica e dintorni. Chi va in Sicilia, torna con almeno un pezzo. O se lo fa spedire se si tratta di roba ingombrante, come tavoli di pietra lavica dipinti a mano da bravi artisti, o “bisoli”, cioè panchine con i fianchi arrotondati in stile eolico. Dal nome delle sette isole davanti al litorale tirrenico. Si guarda il mare a Nord e si scorgono i profili di Lipari, Salina, Panarea, Stromboli. Il bianco della pomice, il nero della lava, i resti della Magna Grecia. Grazie nonno: la storia dell’ulivo che cresce storto se non viene raddrizzato in tempo la racconterò a Michela e a Michelangelo. Covid permettendo       

Aggiungi Commento

Nome
Email
Testo Commento (evidenzia per modificare)

(0) Commenti