Spiegateci perchè
- Gianni Spartà
- 27/10/2020
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La serrata parziale
E i banchi monoposto, alcuni curiosamente a rotelle? E quelli doppi scaraventati dai balconi (scena trasmessa in tv) anziché donati alle maestre e ai missionari dei villaggi africani? E il proposito di non sacrificare subito la scuola, soprattutto le medie superiori, che non è solo compiti in classe? Domande d’attualità. Ma ce ne sono altre. E le quintalate di barriere di plexiglas issate in bar, ristoranti, in generale nei luoghi pubblici, per chiudere in un fortino gli utenti? E i promessi test rapidi, tra meno onerosi, in vista della seconda ondata del virus prevista a maggio sapendo che il “liberi tutti” di luglio e agosto avrebbe accelerato l’arrivo della perturbazione? E i vaccini antinfluenzali che almeno quest’anno sarebbero dovuti arrivare in orario? Il Paese è più disorientato che impaurito e sarebbe meno ostile al per ora parziale lockdown se qualcuno gliene spiegasse le incongruenze. Esempio: bus urbani e treni regionali sono i veicoli di sicuro contagio. Come pretendere di non avere positivi in classe se le moltitudini ogni mattina quei mezzi usano per necessità, abitudine, compagnia, in qualche caso pigrizia fisica e mentale? Siamo come in una guerra e in guerra il quartier generale impartisce ordini senza perdere tempo. Pena la sconfitta. Ora, il governo che decide a colpi di dpcm è dalla parte della ragione: nessuno vorrebbe essere nei panni di un premier al quale i medici dicono che la situazione negli ospedali in pochi giorni è diventata gravissima. Ma un governo che non si fa aiutare nella comunicazione ragionata e si limita all’annuncio nudo e crudo passa subito dalla parte del torto. Se poi si aggiunge la mancanza di coesione istituzionale, con il governatore campano che minaccia la serrata nella movida oggi e se la rimangia domani spaventato dalla reazione incendiaria di frange criminali; se nelle regioni otto persone su dieci dicono cose diverse e insieme, tutte queste cose, non collimano con le strategie dei poteri centrali; se è un problema trovare pediatri che si assumono la responsabilità di distinguere il virus bastardo dal comune raffreddore del bambino di tre anni in autunno; e se il medico di base non sa dove sbattere la testa per fare il tampone subito, lui in persona, a un paziente anziano con la febbre, beh tirando le somme si capisce che cosa ci aspetta da qui alla primavera. Sono problemi facili da elencare, difficili da condannare in un’Italia che ha il record di cause per l’inclinazione genetica ad approfittare dell’errore altrui o a inventarselo. Nel dubbio si va dall’avvocato: una transazione risarcitoria la strappa chiunque. Ma è la disgregazione del Palazzo a preoccupare la gente. Peggio: a terrorizzarla più di quanto sia naturale aspettarsi davanti a una pandemia che, secondo calcoli cinici, promette ottocento milioni di casi nel mondo con otto milioni di vittime. La scuola a distanza è una recidiva pericolosa. Sembra che susciti meno indignazione del divieto di servire pizze, birre e cocktail dopo le 18. In fondo i ragazzi si sono abituati a vedere l’insegnante nello schermo di un Ipad o di un telefonino e viceversa. In fondo gli esami di maturità si sono svolti in qualche maniera e i diplomati sono pronti ad affrontare di nuovo il problema appena iscritti nelle università. Idem se si sono fermati negli studi: affronteranno i lavoro da casa, tecnicamente collaudati. Smart è bello e va di moda. E tuttavia considerare la scuola soltanto didattica - cioè apprendimento di concetti matematici e di pensieri filosofici - è un modo aberrante di ignorare i fondamentali della formazione di un giovane. Vivere in una classe quattro ore al giorno significa sperimentare nel piccolo gli accadimenti di quel grande che è la vita. Significa affrontare il divario delle relazioni sociali, praticare i valori della comunità, della solidarietà, dell’amicizia, dell’amore. L’impressione, pur nella gravità del momento, è che questo aspetto sfugga ai più. Dovendo affrontare il diffondersi del contagio, chi decide sa di avere meno problemi con i capisaldi di una filiera culturale, che con i responsabili di una catena produttiva. Lì si brucia il pane della trascurabile istruzione, qui quello dell’insostituibile reddito. E’ una scelta: nessuno potrà negare che tra l’assembramento in un liceo o in un teatro e quello in una fabbrica non ci sono differenze. Questo è anche un coltello puntato alla gola di un governo che con la salute deve difendere l’economia. Ma non può esimersi dall’esercizio della persuasione che sta alla base del consenso. Lo fate, d’accordo, ma spiegateci perché.