Il velo squarciato
- Gianni Spartà
- 15/01/2021
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Cosche del Nord
Ce l’avevamo in corpo il virus criminale e non la sapevamo. Quanto meno non lo sapevano coloro che per mestiere dovevano sapere. Pigrizia, negligenza, imperizia? Forse la somma dei tre fattori ed è passato così tanto tempo che indagare è inutile. Il virus s’era intrufolato nei tessuti sociali di un territorio che gli era estraneo per culture, geografie, paesaggi. E il contagio sotterrano s’era diffuso a tal punto da non farci caso, forse da rimuoverlo perché obiettivamente scomodo. Senonché il 16 gennaio del 1990, esattamente trentuno anni fa, freddo e neve come oggi, sotto la casa-bottega di un piccolo impresario si squarciò improvvisamente un velo davanti a quattro cadaveri con addosso divise da finanziari e in mano armi rivelatesi giocattoli. C’era stato un blitz dei carabinieri a Germignaga, medio Verbano. I corpi insanguinati erano di soldati della ‘ndrangheta saliti al Nord da San Luca per rapire a colpo sicuro una ragazza, allora ventenne, che quella sera d’inverno si disperava affacciata al balcone tre mamma e papà. Le avevano appena spiegato che il bersaglio della spedizione era lei, Antonella Dellea, e che le cose dovevano filare lisce come l’olio perché un basista perfettamente integrato in questo lembo di Lombardia aveva pensato a tutto. A spiare l’obiettivo da colpire, ad arruolare e trasferire il commando, a procurare i travestimenti, a suggerire la prigione nella quale far sparire l’ostaggio in qualche anfratto della Locride per poi iniziare la litania delle lettere e delle telefonate ai familiari, delle richieste di un riscatto, del blocco di beni e dei comprensibili tentativi di aggirarlo. I carcerieri mozzavano orecchie e minacciavano esecuzioni. Già visto per Cristina Mazzotti, Emanuele Riboli, Tullio De Micheli, sequestrati e mai tornati. Già visto anni prima per rampolli di dinastie di gran nome, Alemagna, Lazzaroni, Parma. Era come se le Anonime avessero abbassato il tiro dall’alta borghesia metropolitana alla media impresa di provincia. Quasi si trattasse di saldi di fine stagione perché sequestri di persona, venuti dopo il contrabbando, il racket, la droga, stavano passando di moda. Troppo rischiosi. C’era dell’altro in cui affondare i tentacoli: l’economia, la politica, le banche, le tangenti, gli appalti pubblici: ad esempio il movimento terra di una regione come la nostra da conquistare un pezzo alla volta fino a fare bingo. E non più imbracciando una lupara o uscendo di casa con giubbotto di pelle di capra e coppola di traverso, ma governando i data-base. Due regole: celarsi dietro società inappuntabili e infiltrare i “buoni” fino a farli diventare “cattivi”. Cioè tirandoseli dalla propria parte con il canto irresistibile della corruzione. Perché ricordare un fatto di trentuno anni fa quando il mondo e nella tenaglia di un altro genere di virus, anch’esso vigliacco, assassino e invisibile? Perché quel giorno nel vasto territorio che parte dai laghi prealpini e finisce sotto il Duomo ambrosiano, tutti perdemmo l’innocenza. Investigatori, magistrati, sociologi e giornalisti. Non c’erano Luciano Lutring e il “bel Renè” Vallanzasca dietro ai sequestri di persona. Le loro specialità erano state le rapine in banca tra gli anni ’60 e ’80 e quei personaggi tragicamente romantici a poco a poco si erano ritirati o erano finiti a San Vittore. No, gli angeli del male che portavano via ragazzi e ragazze e se le cose andavano storte li seppellivano in una discarica o li davano in pasto ai maiali, erano ambasciatori dei capibastone del Sud che lo Stato aveva aiutato a fare carriera al Nord. Dove si sarebbero dovuti ripulire con il soggiorno obbligato e invece trovavano di che sporcarsi nuovamente le mani. Imparavano a mimetizzarsi preferibilmente nei piccoli centri dell’hinterland lombardo, studiavano la mappa della ricchezza da castigare, scoprivano business da segnalare alle centrali mafiose all’altro capo dello Stivale. Sparavano all’inizio, bande contro bande, fuoco amico, poi arrivarono a una conclusione: anche ammazzare stanca. Eccolo il retroscena della strage di Germignaga: il figlio del boss che aveva organizzato il sequestro più che pentirsi si ribella alla legge delle cosche, ne prova letteralmente nausea esistenziale e per rendersi credibile agli occhi di magistrati scettici accetta quella sera di tradire suo padre, sangue del suo sangue, e di accompagnare i carabinieri all’appuntamento con i quattro picciotti sterminati sotto casa Dellea. Era costui Antonio Zagari, secondo l’ex procuratore Armando Spataro “il più credibile dei collaboratori di giustizia”, ramo criminalità organizzata. Ma la vera morale di questa storia è che fino a quel 16 gennaio del 1991 nessuno immaginava che il Padrino era tra noi e da un nel pezzo. Questori e prefetti si abbandonavano a dichiarazioni spericolate: la mafia al Nord non esiste. Innocenza, ingenuità? Forse è stata colpevole supponenza. E c’è voluto un “infame” per cominciare a capire che dopo aver varcato l’oceano negli anni ‘20 le cosche hanno riscoperto l’America a di qua del Po.