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In un altro pianeta

  • Gianni Spartà
  • 27/06/2025
  • 0

Non chiamiamoli manager

Un giovane medico milanese è di guardia all’ospedale di Circolo di Varese una domenica di fine febbraio negli anni ‘70. È un interno, come si diceva all’ora: appena laureato, dà una mano ai colleghi assunti saltando da un reparto all’altro. A un certo punto gli portano sul lettino delle urgenze una donna più di là che di qua. Non respira, ha i polmoni soffocati da una massa d’acqua. O la si libera da quel corsetto di contenzione o si può chiamare il cappellano per il congedo cristiano. Bisogna fare una toracentesi, cioè infilare un ago nelle spalle della poveretta e aspirare il liquido che la opprime. Il primario chissà dov’è. Un vecchio infermiere che è di turno guarda negli occhi il giovane medico: «Dai dùtur, lei ha la manina. Salviamo questa poveretta. Io l’aiuto». Di «avere la manina» lo sventurato è consapevole. Sa anche che non è assunto, non ha coperture, certe cose, per legge, non le può fare. Ma quella donna muore. E lui sbotta: «Dai Fermo, mi prepari una siringa». Il grosso ago penetra nelle carni di una signora attempata, con qualche chilo di troppo. La fronte del dottorino gronda, l’infermiere lo guarda dall’estremità opposta del lettino ed è pronto a tamponare con alcol e tintura di iodio il foro sanguinante quando tutto il liquido sarò stato aspirato. A un certo punto il medico sente una mano che con delicatezza gli picchietta una spalla. Si gira: è il direttore sanitario Giorgio Bignardi, alto, ieratico, stempiato, vocina stridula. «Lo sa mio giovane amico che se a questa donna capita qualcosa finiamo in galera io e lei? Lo sa, vero?». Gelo sotto la lampada che illumina la mano del medico intenta ad armeggiare con la siringa. «Ma lei è bravo, io lo so. Continui pure. Resto qui a guardare, non si preoccupi finisca il suo lavoro con calma». Da che cosa si capisce che eravamo su un altro pianeta? Almeno da due fatti: c’era un direttore sanitario, il capo di tutti i medici, praticamente dell’ospedale. Sopra di lui un cda composto da probiviri della società civile. Ma non solo: c’era un direttore sanitario che una domenica pomeriggio di fine febbraio faceva il giro dei reparti come i metronotte quando ispezionano case, fabbriche, negozi della cui sorveglianza sono stati incaricati. E non era schiavo dei protocolli. L’episodio tenero mi è tonato alla mente leggendo ciò che l’assessore Giudo Bertolaso non ha mandato a dire ai direttori generali degli ospedali lombardi, gliel’ha detto in faccia: se non siete capaci di fare i manager andate a vendere mozzarelle. Conosco il personaggio per come me lo raccontava Giuseppe Zamberletti di cui ho scritto la biografia. Egli morì all’ospedale di Varese elogiando il capitale umano dell’hospice in cui era ricoverato. Tanto era forte la stima reciproca tra il maestro e l’allievo che alla Protezione Civile avevano coniato un alias per l’attuale capo della Sanità lombarda: ZamBertolaso. Arrivo perciò a comprendere il linguaggio diretto di un uomo cresciuto alla scuola delle emergenze e dunque abituato ai poteri speciali che i governi di allora concedevano ai commissari sul fronte di terremoti e alluvioni. Ora gli ospedali pubblici non sono e mai saranno città sventrate e popolazioni da evacuare o mettere sotto a una tendopoli. Ma devono tornare a essere luoghi in cui la barra a dritta la tengono i camici bianchi (Bertolaso tra l’altro è medico). Se questo, che è il vero problema di ruoli, competenze, autonomia, non si risolve; e se non si attribuisce per legge e consuetudine un significato autentico alla parola manager, davvero non ci restano che le mozzarelle. Però la parola manager evoca figure come Marotta e Bianchini nel calcio, Marchionne e Pansa nell’economia, leader che assumono o licenziano allenatori o capireparto e se sbagliano partite o bilanci vanno a casa a loro volta. Ma onestamente, con l’aria politica che tira , ai direttori della sanità italiana sono concesse queste prerogative? No. Allora non chiamiamoli manager .

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Tags :
Guido Bertolaso Sanità lombarda

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