Profitto sì, ma senza eccessi
- Gianni Spartà
- 12/10/2019
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Quando David Whitwan,
big boss della Whirlpool, annunciò che la corazzata americana sbarcava in
Europa scegliendo come porto d’ingresso l’ex Ignis (Comerio, agosto 1989), mise
subito le cose in chiaro. Aveva davanti a sé gli orfani del leggendario familismo
di Giovanni Borghi, simile a quello di altri re dell’industria negli anni del
miracolo italiano. Sorrise come fa l’ospite quando entra in casa d’altri e poi
disse: “Sono qui per badare principalmente
gli interessi del mio azionista, cioè del mio padrone”. Che non aveva un volto, ne aveva
migliaia: i sottoscrittori di fondi pensionistici non solo statunitensi. L’approccio fu onesto,
ma fermo. La cultura delle multinazionali cominciava a cambiare pelle al
capitalismo vecchio stampo. La nuova regola era: prima il profitto, come
d’altra parte aveva teorizzato il premio Nobel Milton Friedman individuando nei
conti in salita la vera responsabilità sociale di un’impresa. Ora si viene a sapere
che 181 top manager di altrettanti colossi globali, tra i quali Apple, non
hanno cambiato idea, l’hanno corretta alla luce di una svolta etica: si devono
arricchire anche i lavoratori, i fornitori, le comunità di riferimento,
altrimenti si fa naufragio. Il business fine a se stesso è economicamente
effimero e socialmente inutile. Si può immaginare che
su questa inattesa rivoluzione, per ora a parole, poi vedremo i fatti,
influiscano il ritrovato ambientalismo, la consapevolezza di aver esagerato in
anni di cieco procedere alla ricerca del guadagno finanziario a ogni costo. Ma
si può anche ipotizzare che, con le nuove tecnologie, i consumatori abbiano
acquisito capacità di selezione e siano in grado di punire i marchi giudicati
solo avidi di ricavi. Da qui questo manifesto buonista che fa a pugni con tante
vertenze aperte nella galassia delle multinazionali. Restando a Whirlpool, non
dice nulla di rassicurante l’annunciata chiusura dello stabilimento di Napoli
(400 posti di lavoro a rischio di evaporazione): l’eco dei tagli destabilizza,
si capisce, anche chi lavora nella fabbrica storica di Cassinetta di
Biandronno, fin qui immune da terremoti. E d’altra parte, allargando la
panoramica, si osserva come non ci sia più gara tra il superpotere di imprese
che praticano la mondialità e aziende con alle spalle capitali di minore
portata. Alle nostre latitudini la Continental ha appena rilevato la Merlett,
storico fiore industriale cresciuto al punto da ingolosire un player di
rilevanza internazionale. Non c’è storia per un sovranismo di tipo economico e pare
sterile propaganda quello di genere politico. Il problema è capire perché
improvvisamente il cane smette di abbaiare alla luna del profitto esclusivo ed
escludente. I 181 top manager, soprattutto quelli acquartierati nella Silicon
Valley, pensano con imbarazzo alle loro
buste-paga lievitate del 940% contro il 12% raggranellato dal lavoratore medio?
Forse. Si sono resi conto che l’eccesso di diseguaglianza produce guasti e che
la rivolta dei ricchi contro i poveri alla lunga crea sconquassi sociali?
Probabile. L’importante è scongiurare il peggio: quando il cane smette di
abbaiare o morde o sta morendo. Intanto si può
ragionare sulla profezia rappresentata da Whirlpool che si comprava la ex
Ignis, già diventata olandese sotto il dominio di Philips, e che vent’anni dopo
avrebbe messo le mani sulla Indesit. Di italiano, cari lettori, rimane ben
poco. I Gelati Motta sono della Nestlè, Krizia dei cinesi, Bulgari e Loro Piana
dei francesi di Lvhm, Valentino parla la lingua del Qatar, la Rinascente è
thailandese, la Poltrona Frau ha passaporto americano, persino due squadre del
cuore lombardo, l’Inter e il Milan, hanno cambiato la fisionomia facciale
passando dal rosso-nero- azzurro al giallo con diverse gradazioni. Verrebbe
voglia di dire che una certa Italia non esiste più. Non è così: l’eredità del
nostro talento imprenditoriale resiste, non muore l’aristocrazia del lavoro
nostrano fatto con la testa e con le mani da migliaia di operai e tecnici. Non
c’è più il grande capitalismo familiare targato Agnelli, Olivetti, Pirelli,
forse non c’è mai stato; ci sono tante medie e piccole imprese leader mondiali
nel loro comparto. Non buttiamoci giù. Ma non pensiamo che la tendenza si possa
capovolgere. Soprattutto non lo pensino i renitenti all’innovazione che è
l’unica sfida abbracciando la quale si possono sconfiggere i gufi della
decadenza inevitabile.