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Se Draghi si sdoppia

  • Gianni Spartà
  • 09/10/2021
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Tra Chigi e Quirinale

La storia repubblicana è stata caratterizzata per tanto tempo dalla guerra fredda tra la Dc e il Pci, preoccupati, la prima del sorpasso a opera del nemico, il secondo di riuscire a compierlo. E questa angoscia è stata la madre del sistema proporzionale di cui non ci siamo mai liberati. Non ci facciamo caso, ma oggi, con alterne vicende, abbiamo un pentapartito al governo o qualcosa del genere. Il compromesso storico fallì nel sangue di Aldo Moro, ucciso dalle Br solo fisicamente. Qualcosa di simile, non uguale, fu l’Ulivo che ebbe vita breve. Il bipolarismo ci ha accompagnati a cavallo di Novecento e Duemila. Da sempre le cose in Italia vanno in modo che nessuno comandi o meglio che nessuno lo possa fare senza un’opposizione tenace a fare lecitamente da contrappeso, sempre pronta all’alternativa ma interessata, più che a condizionare, a ostacolare l’azione di qualsiasi governo. Aggiungiamoci che spesso l’opposizione combatte anche se stessa e senza scomodare teste d’uovo avremo il quadro della situazione. Senonché sulla scena si è presentato Mario Draghi che fa il premier per stato di necessità ed è percepito indifferentemente sia come capo di Palazzo Chigi, sia quale signore del Quirinale. Questo fatto nuovo, se non avrà un epilogo traumatico, rilancia il progetto, più volte accarezzato, del presidenzialismo sul modello francese oggi considerato maturo per una verifica in Italia. Di che cosa si tratta è noto: la più alta carica dello Stato, ovviamente eletta dal popolo, non fa solo il notaio istituzionale, ma anche il leader dell’esecutivo. E che  qualcosa di molto vicino a questo concetto lo si stia sperimentando da una decina d’anni, è verità innegabile. Dalla caduta di Berlusconi in poi è stato sempre il Colle, prima con Napolitano, poi con Mattarella, a indicare i premier e a concertare i ministri. Monti, Renzi, Gentiloni, Conte 1 e 2, Draghi: dal nulla al governo senza passare dal via che in una repubblica parlamentare, lo dice la parola, significa Camera dei deputati e Senato attori protagonisti, non comparse. Nessun paragone tra De Gaulle e Draghi. Uno era un generale, aveva una visione militarista, l’altro un banchiere d’esperienza pescato in Europa, riportato a casa e incaricato di mettere ordine nella allegra compagnia durante una spaventosa emergenza sanitaria ed economica. Negazione della politica, no. Terapia intensiva per rimetterla nei binari, sì. Non è il momento di calare l’asso nel bailamme causato da elezioni amministrative più chiassose delle presidenziali negli Stati Uniti. Ma forse di pensare a una svolta costituzionale, una volta ripristinato  un clima decente (cominciando a convincere metà degli elettori a non disertare le urne) è opportuno. Gli italiani non sognano l’uomo della Provvidenza, hanno già provato l’abbaglio. Chiedono di essere governati con ragionevole speranze di stabilità almeno quinquennale. Chi dice che sarebbe uno strappo, dimentica che da Pertini, il capo dello Stato partigiano, al suo opposto, Cossiga sterminatore della Prima Repubblica, il Paese non ha avuto bandiere in cima al Colle ma uomini d’azione. Non è vero che chi sta lassù non ha poteri presidenzialisti. Li ha e li ha esercitati con veemenza o discrezione a seconda del carattere. E c’è una ragione storica: i padri costituenti ebbero il dilemma di trasferire a un presidente le prerogative di un re. Lo risolsero con coraggio, senza cancellarle del tutto, forse pensando ai tempi che stiamo vivendo. Se non ora quando aprire un dibatto?     

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