Il tassista di Belgrado
- Gianni Spartà
- 07/03/2022
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Pace e guerra
Una sera di settembre 2012. Il tassista di Belgrado al quale ho chiesto i portarmi, dall’aeroporto, dove la Rai sta girando le ultime scene di “Mister Ignis”, film Rai sulla vita di Giovanni Borghi, fa un giro largo. Non richiesto, entra nel centro storico della capitale se rbase si ferma davanti a un palazzo sventrato da un missile . “Bomb”, mi dice con l’intento di coinvolgere nella sua emozione disgustata il passeggero italiano a bordo. Ingrana la marcia e riparte spiegando che l’edificio non è mai stato rimesso in sesto per una precisa volontà popolare. Deve fare memoria per sempre di quel bombardamento della Nato: in tutto alla fine saranno 500 per 27 tonnellate di esplosivo. Ore 23 del 23 febbraio 1999: per la prima volta l’Europa contro se stessa, per la prima volta l’Italia, con al governo l’ex comunista D’Alema, pesantemente coinvolta dopo l’ordine d’attacco aereo impartito da uno spagnolo, il socialista Solana, segretario dell’alleanza atlantica. E per la prima volta una guerra umanitaria. “Se l’orco Milosevic non si fermerà”, chiedevamo noi italiani? “Continueremo a bombardare”, la risposta americana. Ora non si possono fare paragoni tra Belgrado e Kiev, anche se c’è sempre di mezzo uno psicopatico che gioca col terrorismo nucleare a costo di immolare il suo popolo sull’altare del disegno imperialista. Ma si possono rievocare gli antichi dubbi: che cosa dobbiamo fare nella Nato, cui l’Ucraina anela e per questo Putin la sta massacrando, mostrando paura e debolezza? Come si concilia il pacifismo con la necessità di armare la resistenza ucraina? Come evitare che nuovi tassisti un giorno portino gli occidentali a vedere altre rovine: vedete, noi eravamo sotto le cannonate sparate, se non da voi, con carri arrivati da vostri arsenali? Gino Strada aveva una precisa opinione di fronte a questi enigmi esistenziali: “Io non sono pacifista, sono contro la guerra”. E dunque nella guerra la Nato non deve entrare, sembra l’equazione logica, sostenuta in queste ore da Alex Zanotelli, il paladino dell’Africa sfruttata. Ma andate a esporre la teoria a Dima, un ragazzo di Kiev che carica pacchi di viveri su camion diretti a Verona, snodo della gara europea di solidarietà. Lui sa che da un momento all’altro possono chiamarlo a morire per la patria. E’ nell’età degli arruolamenti obbligatori. E sa che sul fronte opposto c’è un “figlio di Putin” che ha comprato politici e partiti interi anche in Italia, che ha mascherato il suo volto di satrapo fino a un mese fa recandosi alle olimpiadi in Cina, che ha fatto strage di bambini a Beslan, sterminato ceceni, partecipato alle sanguinose guerre civili in Siria, che sta gareggiando in ferocia con Stalin, il quale non si sognava di premere il pulsante nucleare. Chi potrebbe farlo ragionare? Si pensa alla Merkel, per la quale il russo è madre lingua. Ma se “a brigante un brigante e mezzo”, come amava ripetere il partigiano Sandro Pertini, il mediatore, sembra una bestemmia, va cercato tra gente della stessa razza poco democratica. Un turco, un cinese? Una cosa è certa: non fare presto, ma fare prima