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Angeli e demoni

  • Gianni Spartà
  • 21/05/2022
  • 0

Accusa sotto accusa

Passi per un caso, due , tre, facciamo cifra tonda, dieci. La ricerca di giustizia giusta è un bene talmente prezioso che ci sta la continua metamorfosi tra angeli in demoni nelle nostre aule. Ti accusano, ti svergognano sulla pubblica piazza. Dopo un anno sei assolto e martire col viatico di quattro paroline soavi: il fatto non sussiste. Cioè non è vero niente. Surreale. Succede troppo spesso per le alte sfere - i peones non contano - che a un’imputazione rumorosa segua un’archiviazione silente, che un pubblico ministero perda la causa e il giudice la vinca. Fa subito capolino l’antico dilemma irrisolvibile per storia e costume in un Paese come il nostro: possono far parte della squadra, vestire la stessa toga a occhi profani, i requirenti e i giudicanti? Trattandosi di mestieri fortunatamente diversi non è meglio separare una volta per tutte le carriere sul modello anglosassone? Nessuno perderebbe un’oncia di dignità né da una parte né dall’altra. Anzi. Ma tant’è. Le fiction televisive d’oltre oceano solennizzano la formula d’apertura di un processo: lo Stato di New York contro il signor Tal dei Tali. Il tramite è un procuratore estraneo al sistema giudiziario, un avvocato pubblico che se la vede con un collega privato sotto lo scranno di un “vostro onore”. Il quale di tanto in tanto convoca le parti ai suoi piedi e cerca di suggerire una rotta a seconda dell’idea che s’è fatto. Ora, le resistenze al cambio di passo sono di ordine corporativo, quindi insondabili. Le discussioni spuntano e subito tramontano alla vigilia di referendum come quelli in agenda il 12 giugno: sono cinque e nemmeno stavolta andranno in porto, salvo uno sbarco di marziani. La gente è scottata dai fallimenti precedenti, ha altro a cui pensare e in più ha visto apparire e sparire l’unico quesito di un certo interesse popolare. Quello sull’obbligo di indennizzo in caso di sentenze sbagliate, ma a carico delle toghe. Come accade per tutti i professionisti: medici, avvocati, ingegneri. Enrico Letta ha messo le mani avanti dicendo ai suoi: votate no secco per tutti e cinque i quesiti, il “sì” complicherebbe le cose nel pianeta giustizia, anziché appianarle. Se lo dice lui… Ma si possono fare alcune considerazioni sulla serie innumerevole e preoccupante di sconfitte collezionate dall’accusa nei processi non soltanto alla politica. Non sono più rarità ergastoli per orrendi omicidi che diventano assoluzioni in appello. A Varese fa scuola il caso Stefano Binda-Lidia Macchi. Battutaccia: gli avvocati sono diventati più bravi dei pubblici ministeri? Mezza verità: sfumato l’effetto Di Pietro 1992, i procuratori non sono più gli invincibili samurai di trent’anni fa, osannati dalle folle? Provocazione: bisognerebbe cancellare dagli atti giudiziari, almeno da quelli solenni e ultimativi, la scritta “In nome del popolo italiano”. E sapete perché? Perché il popolo italiano sempre più spesso non si riconosce in questa “nomination. Non è sfiducia, è incomprensione. Risulta difficile rappresentare e quindi  farsi carico di una giustizia che manda all’esterno, segnali di colpevolezza a proposito di fatti gravissimi e poi li ribalta radicalmente in corso d’opera. L’accusa è mobile qual piuma al vento. L’Italia, culla del diritto per merito dell’impero romano, non può decadere a tomba della giustizia per la lunga sequenza di sconfitte nella ricerca di verità. Altro che tre gradi di giudizio per essere sicuri di non sbagliare. Si arriva a cinque, se l’imputato è solvibile ed esigibile. Ciò che in altri Paese è un’eccezione, da noi è il pane quotidiano. Un pane indigesto.

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