I Mondiali di Alfredino
- Gianni Spartà
- 13/09/2025
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Binda e Ambrosetti
Le cose andavano più o meno così: Alfredo Binda rientrava a Cittiglio, dove era nato operaio e non immaginava che di lì a qualche anno sarebbe diventato re, imboccava l’attuale via Veratti, nel centro di Varese, smetteva di pedalare e per inerzia si fermava davanti a un garage sulla cui porta, puntuale come un orologio svizzero, c’era ad attenderlo il suo amico più caro. Uno di quei personaggi d’epoca che viveva di lavoro e passione, che si sporcava le mani con il grasso delle automobili e se le lavava religiosamente prima di toccare due cose preziose: il manubrio delle biciclette da corsa e le pagine rosa della Gazzetta dello Sport, il giornale per il quale, da piccolo, aveva fatto lo strillone. Era costui Antonio Ambrosetti detto pa’ Togn. Binda lo salutava e gli raccontava d’aver migliorato i tempi della quotidiana scalata del Cuvignone, la montagna che protegge casa sua, oggi museo. L’altro gli sorrideva, gli toccava una spalla come si fa con la statua di un santo, insieme andavano a bersi un bianchino. Poi il campionissimo risaliva in sella e percorrendo il viale Aguggiari si dirigeva verso il Brinzio per tornare in Valcuvia. Deve aver pensato a questo siparietto degli anni ’40 l’altro Alfredo, Ambrosetti, il figlio di Antonio, quando nel 2018 decise di invitare a pranzo in un ristorante famoso dalle parti di Novara i discendenti dei patriarchi del ciclismo nazionale: i Coppi, i Bartali, i Girardengo, i Magni, naturalmente i Binda. Erano passati dieci anni dai Mondiali di ciclismo celebrati a Varese con una ciliegina sulla torta: vinse un italiano, Alessandro Ballan, vendicando lo scorno del 1951 quando, sempre a Varese, aveva trionfato uno svizzero, Kubler. In quei giorni iridati a Varese uscirono dal baule della memoria ricordi e aneddoti legati all’Alfredo di Cittiglio, uomo bello, elegante, imponente, carismatico, che avrebbe potuto interpretare i film di Rossellini se non l’avesse abbagliato il luccichio di un telaio. Quel luccichio che, senza aver mai fatto attività agonistica, di tanto in tanto s’infilava negli occhi di Alfredo Ambrosetti quando la memoria lo riconduceva ai Mondiali del ‘51 organizzati da suo padre. Ecco una testimonianza che egli mi consegnò dopo il raduno di Novara. “Io ero un ragazzino e ricordo la frenesia e la tensione che circolavano per casa. Captavo gli echi della grandezza che stava assumendo l’evento. La sera di vigilia della corsa, il primo settembre, papà mi portò a visionare il circuito che si snodava tra Brinzio, Bedero, Varese viale Valganna e terminava all’ippodromo delle Bettole sulla linea del traguardo. Si vedevano fuochi accesi negli improvvisati bivacchi di tifosi, si coglievano parole d’entusiasmo, si respirava un clima di febbrile attesa. Restai sbalordito. Il percorso seguiva la traccia di quello pensato nel 1939, accorciato di pochi chilometri. Non se ne fece nulla per via dell’inizio della guerra. Secondo una stima il Mondiale del ’51 ebbe 800mila spettatori, forse un milione. E papà era raggiante accanto a Binda che era il commissario tecnico della squadra azzurra in ritiro a Velate, nell’attuale Villa Sorriso. Coppi non partecipò per divergenze con il suo manager. Io il giorno della gara fui incaricato di tenere i collegamenti tra la giuria e i giornalisti. Distribuivo comunicati stampa, compreso quello con l’ordine di arrivo. Esperienza indimenticabile che segnò la mia vita e che mi ha indotto a organizzare il raduno con i discendenti dei grandi campioni d’allora. Perché l’ho fatto? Per onorare lo sport nazionale e per mandare un affettuoso saluto a mio padre che da lassù avrà sorriso”.